venerdì 3 agosto 2012

Pernacchie al British Film Institute

Lo scrittore Mark Twain diceva che il lavoro del critico è quello più deprimente, senza specificare però cosa fosse più deprimente, ascoltarlo o esserlo, un critico? Faccio mia invece una citazione di quel matto di Eugène Ionesco, "Il critico deve scrivere, non prescrivere"; il vizio peggiore infatti è non iniziare mai una frase con "Non vorrei sbagliarmi ma", sono tutti col dito contro - ma ripeto, né io o Twain riusciamo ad uscirne, è forse più cretino ascoltare, i critici. Okay, culturalmente potrebbero essere più preparati, ma il cinephile medio, tipo quelli con cui ho avuto a che fare quando ero alla scuola di cinema "Rossellini", si scannava contro il critico di turno per le stelline e gli asterischi mancati ai propri film preferiti, una sciocca pretesa (al contrario, rimaneva indifferente se le otteneva), quando un film, se colpisce al cuore o al cervello, è nelle nostre mani di giudizio che lo rendiamo il nostro preferito. Ancora più banale sentir dire, "se è piaciuto alla critica, dev'essere un brutto film", o viceversa, specialmente se detto da Ezio Greggio o da Massimo Boldi, il primo imperdonabile regista e il secondo, beh, sapete chi è Boldi, non criticatelo, potrebbe fare un twitter di vaffanculo. Il mio punto di vista è questo: non deve decidere Mereghetti o Morandini se un film per me è bello o no, ovvio, ma odio profondamente il lavoro del critico perché nel mio genere preferito, il comico, non c'ha mai preso, è sempre arrivato tardi massacrando in vita geniali comedian e, da morti, con forte ipocrisia li ha lodati come irripetibili, semplicemente perché la commedia è stata sempre vista come una forma d'arte secondaria, di serie B. Odio la critica cinematografica perché noiosa (per me, il migliore è Goffredo Fofi) e noiosi e inutili sono i discorsi sulla critica. Come questo che sto scrivendo. 
Eppure diamo ancora retta a 400 o 800 critici e registi che ogni tanto si incontrano e decidono la lista dei più bei film di sempre, appuntamento decennale della British Film Institute (BFI) puntuale anche quest'anno - stavolta, con clamore ha tolto dalle palle Quarto potere (1941), di Orson Welles, e ha messo a mio parere uno dei più mosci film di Alfred Hitchcock, La donna che visse due volte (1958) al primo posto. Al seguito una cinquantina di film non proprio per tutti, ovvio, e dalle lontane date, dai tempi del muto a Mulholland Drive, film del 2001 diretto da David Lynch, ma tutto puzza di vecchio, polvere, capolavori artistici ma clamorose rotture di palle. Eh sì, duri a morire Ejzenstejn, Dreyer, Vertov, Murnau, fortunatamente mescolati a capolavori come Taxi Driver, di Scorsese (curioso: era tra i votanti), a Ladri di biciclette, di Vittorio De Sica. Il problema principale con queste liste che mancano fottutamente delle commedie divertenti (okay, teoricamente quattro ce ne sono: The General, splendido film con Buster Keaton, Playtime, di Jacques Tati, A qualcuno piace caldo, di Billy Wilder, e Luci della città, di Chaplin): dove sono Leo McCarey, Frank Capra, ma anche Hitchcock di Intrigo internazionale, con Cary Grant in stato assoluto di grazia, e invece neanche un film con Jack Lemmon, Stanlio e Ollio, Jerry Lewis, non riusciranno mai ad inserire un film di Chaplin dove si ride per tutto il film come Il circo, o un cartone animato. Sottovalutiamo un'ora e mezza di risate e divertimento per Antonioni, i silenzi di Kurosawa, i tormenti di Fellini (ma diamine, e votate Amarcord per una volta!), tutto questo lascia il tempo che trova. Aveva ragione Monsieur Hulot ad andarsene, sdegnato dal branco di deficienti che preferiscono stare sulla spiaggia noiosa e monotona che ridere ad un funerale per colpa di una ruota di scorta.

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