lunedì 29 agosto 2022

Centenario di Vittorio Gassman, la monografia nel quinto numero di “Visioni di Cinema”

Dopo le monografie dedicate a Pier Paolo Pasolini e Ugo Tognazzi, Visioni Corte International Short Film Festival, uno dei maggiori eventi italiani dedicati al cortometraggio che si svolge a Gaeta (LT) da undici anni, dedica il quinto numero di “Visioni di Cinema” a Vittorio Gassman, in occasione del centenario della sua nascita che ricorre il 1° Settembre. Il progetto editoriale di approfondimento di critica cinematografica, nato lo scorso anno con i primi due volumi dedicati a Federico Fellini e Vittorio De Sica, e proseguito appunto con le pubblicazioni dedicata a Pasolini e Tognazzi, approfondisce ora l’opera del grande attore e regista italiano nato a Genova il 1° Settembre 1922 e scomparso il 29 giugno 2000.

Da giovanissimo Vittorio Gassman ha davanti a sé un futuro nel basket ma poi, dopo la scuola, decide di iscriversi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Comincia così la carriera di uno dei più grandi attori italiani del dopoguerra, un gigante del Novecento diventato una vera e propria icona con i suoi film. Una carriera che ha spaziato tra cinema, teatro, tv, poesia, riuscendo in quello che sono i grandi possono: coniugare la cultura alta con lo spettacolo popolare.

Il volume, il quinto della serie di “Visioni di Cinema – Quaderni di Visioni Corte Film Festival” curata dal giornalista Giuseppe Mallozzi, vuole essere un omaggio al grande attore e regista, in occasione del centenario della nascita. Hanno partecipato con i loro scritti i critici cinematografici Ciro Borrelli, Andrea Ciaffaroni, Gianmarco Cilento, Francesco Mattana, Domenico Palattella, Davide Persico, Roberta Verde, approfondendo vari aspetti della sua carriera.

Il libro, edito da Ali Ribelli, è in prevendita sul sito www.aliribelli.com e tra pochi giorni sarà disponibile in tutti gli store online e nelle librerie.

venerdì 26 agosto 2022

Ma i comici devono essere brave persone?

Da quando la
mia passione per la comicità è diventato un lavoro freelance come scrittore, mi sono spesso posto il quesito se nel raccontare la vita di un attore bisogna scindere il lavoro dalla vita privata. La risposta è duplice ma legata ad una mia etica professionale: quando ho raccontato la vita di Peter Sellers, il focus principale che mi sono imposto è stato quello di un resoconto del suo contributo alla comicità inglese e ai ruoli più significativi della sua carriera, ma nel suo caso era impossibile nascondere la sua personalità difficile, soprattutto quando cominciò a dare problemi sul set fino a rovinarsi la carriera. Ma Sellers, bontà sua, era un caso raro nel mondo dei cosiddetti “comedians”, perché non tutti avevano un lato oscuro o erano difficili da trattare. La domanda che spesso ci si pone è la seguente, com’erano dal vivo questi signori?, quando quella che mi pongo oggi è un’altra, ma devono per forza essere anche brave persone? Se esserlo è un modo per mantenere una figura familiare, piacevole da incontrare, in modo da non farsi odiare dal pubblico, è una mossa giusta per un attore, quanti aneddoti avete sentito di quell’attore che ha rifiutato un autografo, una foto, e trattato male un fan? Oggi poi il pubblico è spietato: è successo di recente che una cantante italiana è stata crocifissa sui social perché ha rifiutato di firmare due autografi ad un concerto, nonostante avesse contestualizzato il suo gesto; Carlo Verdone, uno che a forza di concedersi ai fan ha dichiarato di avere poca vita privata, non schiva gli insulti se questo non succede; ed è ridicolo come il pubblico italiano ammiri di più gli artisti stranieri per la loro disponibilità, perché dimenticano che tutti nel mondo dello spettacolo sono umani, e anche loro con le giornate storte possono anche aggredirti se risulti invadente (come è successo a Tom Hanks, sant’uomo). Gli attori non sono schiavi del pubblico, possono rendersi disponibili perché a loro fa sempre piacere il riconoscimento – e l’ho imparato bene da uno che è sempre cortese e disponibile, come Leo Gullotta - , ma credo che la convinzione che gli attori, e special modo quelli più amati per la loro simpatia come i comici, debbano essere brave persone, è sbagliata. E’ sempre bello incontrare il proprio mito, ma il rischio di scottarsi è altissimo. A volte sarebbe meglio evitarlo. Per esempio, Renato Pozzetto è una persona poco amabile: non c’è commento benevolo su un incontro informale con lui. Eppure rimane uno dei comici che preferisco, tanto da avergli dedicato un libro con Sandro Paté. Su Nino Manfredi, soggetto del mio terzo libro, me ne hanno dette di tutti i colori, dall’avarizia alla cattiveria in età avanzata, ma in questo caso non li ho ritenuti argomenti preziosi per raccontare la sua carriera. La gente poi si convince da chissà quali pettegolezzi, duri a morire, come il povero Alberto Sordi, marchiato avaro a vita, che invece faceva beneficenza di nascosto. Ma attenzione, un conto il gossip, un conto l’aneddoto che potrebbe farti capire com’erano alcuni personaggi, e qui entro nell’argomento principale, fantasticando su chi avrei puntato assolutamente per un incontro, una breve chiacchiera. 

Tralasciamo i Nostri, voliamo in America nel secolo scorso. Fra i comici americani, molte testimonianze garantiscono che Buster Keaton fosse timido, taciturno, non che sottolineassero una sua maleducazione, perché altrettante sono le storie di cortesi incontri, spesso con lo scioccante dettaglio che Keaton, il comico sempre serio, nella vita privata fosse tutto sorrisi e grandi risate; certo non erano comici che trovavi in giro a passeggiare, anche perché alcuni come Charlie Chaplin erano irraggiungibili, rinchiusi negli studi a lavorare o dietro il cancello delle loro ville, ma proprio Chaplin viene raccontato più amabile con i fan che con la sua troupe. Non era poi uno che scriveva lettere, come invece faceva colui che era probabilmente il più disponibile, e cioè Stan Laurel: ma Stan andava oltre, negli anni della pensione era raggiungibile sulle pagine gialle e la domenica potevi prenotare una visita nel suo appartamento a Santa Monica. Se Stan rispondeva alla corrispondenza, il compagno Oliver Hardy era più pigro, tanto da usare un timbro con la sua firma piuttosto che farla di suo pugno, ma gli aneddoti sul suo carattere da gentiluomo abbondano. A quanto pare entrambi non si risparmiavano con i fan, né erano di frequente cattivo umore con la troupe. 

Il problema è che il pubblico non vuole essere tradito; quindi, quando uscirono storie di profonda cattiveria riguardanti Bob Hope o Jerry Lewis, la delusione fu cocente. Hope, poi, era l’uomo delle battute negli eventi importanti di beneficenza, e leggere che gettava i salari dei suoi battutisti dalle scalinate del suo ufficio, giusto per la gioia di vederli in terra a raccoglierli, fa abbastanza male. Jerry deve aver avuto una personalità complessa, egocentrica: personalmente non mi ha mai interessato la cosa perché l’ho sempre amato, ma alcune storie di profonda cattiveria nei confronti della troupe o dei fan (o anche della sua ultima moglie) non possono essere ignorate. Con l’età, Lewis si è poi addolcito tanto da essere severo con se stesso quando scrisse un libro sul suo rapporto con Dean Martin, ma l’ultimo capitolo della sua vita fu così perfido da aver inorridito tutti, con l’esclusione dal suo ricco testamento la maggior parte della sua numerosa prole. Ed è quindi un bene non sapere certe cose, perché alcune storie non brillanti hanno interessato comici all’apparenza buoni, da Danny Kaye a Lou Costello, e altre invece di carineria e disponibilità di comici noti per essere cinici, come W.C. Fields e Groucho Marx, anche se su Groucho ho dei dubbi: la sua lingua era lunga abbastanza da aver ferito parecchie persone che hanno documentato la cosa. Alcuni invece erano l’opposto del suo personaggio – il grande equivoco del pubblico! – come Jacques Tati, non esattamente il buon Hulot dello schermo, o Fernandel, simpatico sì ma facilmente collerico, e altri che sembra rispecchiassero quella bontà, come Benny Hill o il francese Louis De Funés. 

Io personalmente ho conosciuto diversi comici, alcuni anche bene, e credo di essere stato fortunato ad aver raccolto personalmente momenti simpatici e piacevoli: ed è vero, l’animo del clown a volte riflette su una persona buia e spesso serissima. Una delle storie che preferisco è quella di Walter Matthau con Charlie Chaplin: lui e sua moglie erano molto amici di Chaplin ai tempi dell'esilio in Svizzera: e se le loro mogli si fossero ritirate per parlare, Matthau avrebbe alzato gli occhi al cielo perché era costretto alla compagnia tragica e noiosa del vecchio Charlot. Parlare con alcuni comici giunti al capolinea non è un bello spettacolo, ma potrebbe rivelarsi interessante. Del resto, anche Maurizio Nichetti mi disse che quando incontrò a Parigi il vecchio Jacques Tati, in occasione di una proiezione del suo primo film, lo trovò acido, burbero e pessimista, ma poi si ricrederà quando venne invitato a casa sua per parlare del suo film e persino parlare di una collaborazione. 

Siamo poi sicuri di voler solo un autografo o una foto ricordo? Alcuni attori li ritengono gesti inutili, ecco perché Jim Carrey preferisce fermarsi a fare due chiacchiere. Il selfie blocca la vita, mentre dirsi "ciao come va?" mantiene un certo rapporto umano. Vogliamo mettere?
Mi vengono in mente due personaggi che sono state vittime del loro stesso personaggio, pur senza fargliene una colpa. Ma John Belushi aveva ammiratori che gli giravano attorno offrendogli cocaina o, peggio come è stato raccontato, lo aggrediscono infilandogli un panino in bocca (sì è ironico, ho scritto che è peggio un panino in bocca che la cocaina, ma credo abbiate capito cosa intendo). O Robin Williams, che per natura era sempre divertente e andava in depressione quando non gli riusciva esserlo.


Personalmente io preferisco capire com’erano sul lavoro, il metodo e il rapporto con la produzione, un dettaglio più importante che pochi riescono a carpire: certo, è interessante sapere che Totò ci teneva ai salamelecchi e dovevi chiamarlo “Principe”, ma lo è molto di più capire come interveniva sulla scena (e potrebbero avere un atteggiamento totalmente diverso, non credete?); Paolo Villaggio, prepotente e pigro, è forse quello che meno avrei voluto incontrare, e così è stato. Peter Sellers forse mi avrebbe ingannato: gentile con i fan, sul set era meglio stargli lontano e a casa non era per nulla tenero, ma ai giornalisti si concedeva con gusto. Una volta ho incontrato Ben Stiller a Roma mentre stava preparando “Zoolander 2”: un incontro informale, in una libreria, e si concesse volentieri ad una foto e due chiacchiere che gli feci su “Tropic Thunder”. Vidi anche Tom Hanks, disponibilissimo, a Londra. Eppure fidatevi, non dobbiamo farli sentire brave persone, perché come tutti noi potrebbero non esserlo. La risposta alla domanda è questa, concludendo che fra tutti questi avrei scelto ovviamente Stan Laurel. Ma se l’avessi trovato con la luna storta, non avrei mai cambiato opinione su di lui, perché alla fine quello che importa è quello che vedi sullo schermo.

giovedì 4 agosto 2022

La vera storia dell'Oscar negato a Don Camillo

Dopo aver lavorato ad un documentario su cosa e perché i primi due film della saga di Don Camillo avessero due versioni girate in francese e in italiano, ritorno a parlare di un altro aspetto poco conosciuto che riguarda il primo capitolo, diretto da Julien Duvivier e noto semplicemente come Don Camillo (1952). Oggi è difficile trovare qualcuno che non abbia visto almeno un film con Fernandel parroco battagliero contro il sindaco comunista Gino Cervi, e per questo ritengo non ricordare di cosa parlassero. Il film ebbe un enorme successo alla sua uscita nel marzo del 1952, balzando nella classifica dei maggiori incassi di quell’anno con la cifra record di 1 miliardo e 468 milioni di lire, quanto bastò per girarne altri quattro fino al 1965 (o cinque, se contiamo anche il film Don Camillo e i giovani d’oggi, iniziato nel 1970 e non completato per la morte improvvisa di Fernandel) sempre con moderato successo.

Forte del trionfo ottenuto con il romanzo tradotto negli Stati Uniti nel 1950 con il titolo The Little World of Don Camillo, il film arrivò in America nel gennaio del 1953 con la voce d’eccezione per il commento fuori campo di Orson Welles. Ottenuti grandi consensi oltreoceano, si pensò persino di inserirlo nella lista dei film scelti dalla critica newyorkese come miglior film straniero, ma quanto pare a nessuno venne in mente di candidarlo ai premi Oscar del 1954. All’epoca gli States stavano vivendo un periodo caldissimo a causa della Guerra Fredda, e le attività antiamericane avevano reso molto tesi i rapporti nella comunità di Hollywood con i simpatizzanti comunisti: com’è noto agli storici, il senatore repubblicano Joseph McCarthy fu a capo della Commissione che indagava sul pericoloso “rosso” fra il 1953 e il 1955 – periodo definito “Maccartismo” – e fece di tutto per alimentare il boicottaggio contro i comunisti americani. Già alla fine degli anni Quaranta, molti artisti di Hollywood furono convocati per testimonianza volontaria (Walt Disney fra questi) o per rispondere all’accusa di avere simpatie di sinistra. Veniva colpito anche il solo pensiero liberale: a Charles Chaplin, in America dal 1912, fu proibito rientrare negli States non appena si imbarcò per andare a Londra in occasione della prima di Luci della ribalta, nel 1952. Se l’FBI indagava alla luce del sole, la CIA tramava nel buio, ed è qui che torniamo a Don Camillo

Luigi Luraschi, o' spione
Un nome è stato trovato da David N. Eldridge, professore all’università di Hull che nel 2000 pubblicò un dossier sul rapporto della CIA con Hollywood, quello di Luigi Luraschi. Di origini italiane ma nato a Londra nel 1906, era un poliglotta che parlava cinque lingue, incluso l’arabo, una formazione internazionale che Luraschi aveva grazie ai numerosi viaggi che compiva per la sua famiglia, impegnata in affari con una catena d’alberghi: nel 1933 entrò alla Paramount come responsabile degli affari esteri degli Studi, e tre anni dopo, nel ’36, fu incaricato nella corrispondenza con le succursali europee per le note di censura. I rapporti di Luraschi erano quindi governativi, in quanto la censura era rigidamente controllata dal Production Code Administration (un decalogo “morale” meglio noto come Codice Hays). Quando nel 1947 fu eletto come nuovo presidente della Motion Picture Association of America (MPAA), Eric Johnston, egli mise in atto la sua intenzione di migliorare i rapporti con i mercati internazionali chiedendo all’Academy di istituire un premio oscar alla categoria di Miglior Film Straniero. Era soprattutto una tattica commerciale astuta: in quel periodo gli incassi al botteghino stavano calando per l’avvento della televisione (negli Usa dal 1948), e per recuperare i costi l’America si stava affacciando in Europa per trovare accordi di co-produzione che avrebbero garantito più responso economico. Poiché l’anticomunismo era fortissimo anche in Italia, gli affari si fecero più velocemente. Tuttavia, la commissione dell’Academy che votava i film stranieri era stata capitanata da Luraschi nel 1950-51, 1953-55 e 1958, periodo in cui prendeva la macchina da scrivere e di nascosto faceva il consulente per la CIA, proprio tramite la Paramount. Anzi, scriveva proprio rapporti che non facevano che accrescere la paura comunista negli Stati Uniti. Non solo, Luraschi era così ligio al dovere che si preoccupava pure se Jerry Lewis faceva una parodia di uno scià arabo in Money From Home (I figli del secolo, 1953), ma solo perché in quel periodo i rapporti con l’Iran non erano idilliaci. In gran parte della corrispondenza del ’53, leggiamo due riferimenti a Don Camillo. Nella missiva del 23 febbraio si legge: “Penso che siamo riusciti a mettere da parte Il piccolo mondo di Don Camillo in modo che non ottenga l’Oscar per il Miglior film straniero. In realtà, personalmente non credo che questo film sia troppo pericoloso dal punto di vista politico, ma la sinistra era così intenzionata a farlo candidare tanto da aver fatto alcune campagne elettorali private per vedere il grande vantaggio nell’ottenere un Oscar; quindi, ecco perché sono andato proprio contro. Presumo che sia perché la fine del film indicherebbe che è possibile che comunisti e altri convivano felicemente insieme". Il 9 marzo rincara la dose: “Ho lavorato molto con i vari membri del Board of Governors dell'Academy of Motion Picture Arts and Sciences, per decidere il premio per il miglior film straniero. (…) Penso che siamo riusciti ad ostacolare Don Camillo”. La lettera si conclude con l’auspicio di aver messo abbastanza persone in fila per votare alla fine Jeux interdits (Giochi proibiti), film francese del 1952 diretto da René Clément, e così avvenne puntuale con la statuetta aggiudicata nella edizione del ’53. E dire che Giovannino Guareschi, apertamente anticomunista, aveva avuto la sua parte nello screditare la sinistra quando il partito perse alle elezioni del 1948, per le quali la CIA, con ironia della sorte per Luraschi, era intervenuta segretamente con ingenti somme per aiutare la propaganda della DC. Più che paranoia, Luraschi era spinto dal sentimento di voler cambiare la storia – inutile dire quali correnti politiche seguisse, ma aggiungo che era cattolico convinto – ma nonostante la preziosa documentazione raccolta da Eldridge provi quanto sopra scritto, la CIA potrebbe non aver influenzato troppo Hollywood, ma sono una testimonianza in che clima vivesse il popolo americano.

Ma Don Camillo era davvero sovversivo? Nei libri, e nelle versioni francesi girate dei due primi film, lo spirito era più duro e meno paesano di quanto il cinema abbia cambiato i personaggi, con aperta polemica dello stesso Guareschi che cercherà di inserire le sue idee per tutta la sua vita. Il tono sentimentale era più influenzato dal giudizio cattolico che pesantemente intervenne durante le riprese, suggerendo qui e là di alleggerire situazioni per loro blasfeme o poco ortodosse, e trasformando le storie del parroco con un tono dolciastro: il vogliamoci bene piacque molto al pubblico, eppure come raccontato oggi questi sentimenti potevano essere considerati rischiosi: ad oggi la CIA non ha mai smentito quanto riportato, e sulla verità dei fatti non possiamo che esserne certi.