domenica 14 gennaio 2024

Un brano inedito di Cochi e Renato?

giovanissimi al Cab 64 - ©Uliano Lucas 

Mentre leggo La versione di Cochi, scritto da Ponzoni con Paolo Crespi, mi soffermo su un ricordo dei tempi del Cab 64, il primo locale milanese che accolse professionalmente gli allora giovanissimi Cochi e Renato, e sul ruolo del paroliere Giorgio Calabrese come collaboratore del gruppo di artisti che si unì a questa fase sperimentale del cabaret a Milano (assieme a Bruno Lauzi, Felice Andreasi, Lino Toffolo). A quell’epoca – siamo nel 1964 - Calabrese, autore di canzoni per artisti del calibro di Mina, Ornella Vanoni, Adriano Celentano, Luigi Tenco, aveva scritto una canzone per Cochi e Renato dal titolo La cosa, e nel 1975 collaborerà di nuovo con loro per due brani inseriti nel film Il padrone e l’operaio, regia di Steno, cantati da Cochi e Renato, e musicati da Gianni Ferrio, La ventosa e La fortuna ha le mutande rosa. Stando a quanto letto nella sua autobiografia, Cochi afferma che Calabrese aveva scritto apposta per loro un’altra canzone intitolata In due, con musiche dello stesso Ponzoni. Nel deposito della SIAE, questa canzone effettivamente c’è, ma la musica è attribuita a Jacqueline Perrotin, pianista francese che lavorava con il gruppo al Cab, e all’epoca moglie di Ciro Tortorella. Quando scrissi la discografia per il libro che ho realizzato con Sandro Paté – Cochi e Renato, la biografia intelligente (Sagoma, 2019) – pensavo di aver raccolto tutto quello che avevano cantato in coppia, consapevole però agli inizi della loro esperienza in cabaret potesse esserci qualche ballata milanese che si smarrì in quelle occasioni. Mai pensavo però di leggere di un brano scritto proprio per loro, e non di saperne niente. Succede! Essendo una canzone inedita, mai registrata o recuperata negli anni successivi, ho scritto alla Siae, sai non si sa mai…

martedì 2 gennaio 2024

Quando il Belpaese voleva Stanlio e Ollio gladiatori

Quello che sto per raccontare parte da una curiosità principale che a quanto pare sul web non è riportata da nessuna parte: questo perché la fonte è un libro di interviste che conoscono gli studiosi di cinema, ed è da lì che sono partito, come si faceva una volta nelle biblioteche e negli archivi, in tempi non troppo lontani ma che sembrano giurassici. E dedico questo articolo alla memoria di Ernesto G. Laura, caposcuola di una generazione di storici del cinema che ebbe l’occasione di raccontare, fra le varie cose, la storia di Stanlio e Ollio.


La curiosità parte da un titolo dell’Hollywood Reporter del dicembre del 1939 che annunciava il prossimo progetto della coppia Laurel e Hardy nei panni di due gladiatori nell’Antica Roma. La notizia vedeva ottimisticamente il futuro di Stan e Ollie ancora sotto contratto con Hal Roach per la United Artists, e invece, mentre stavano girando Saps at Sea (C’era una volta un piccolo naviglio, uscito nel 1940), decisero di chiudere per sempre con il produttore cercando strade migliori. Al di là di questo progetto di cui non sappiamo nulla, neanche l’esistenza di un soggetto, possiamo affermare che quello che fu proposto loro – anche idealmente – anni dopo in Italia è una coincidenza veramente incredibile. Perché si trattava proprio di una storia con loro due come gladiatori alle prese con Nerone. Per spiegarlo dobbiamo fare una premessa storica tornando all’Italia del dopoguerra.


All’epoca il nostro paese era invaso dai comici, vecchi e nuovi. Totò, dopo una falsa partenza alla fine degli anni Trenta, cominciò a girare film di successo ed esplose come il comico del momento. La vecchia guardia, capitanata da Macario, Aldo Fabrizi, Nino Taranto, proveniva dal varietà come Totò e seguiva l’onda del successo di quest’ultimo, mentre la giovane generazione, chi dal teatro, chi dall’avanspettacolo o dalla radio, fu “rapita” dai produttori per inserirli in film comici veloci da girare dalla qualità altalenante: prima del successo di Alberto Sordi, per citarne uno che negli anni Cinquanta divenne il re del box office, erano già subentrati Ugo Tognazzi, Walter Chiari, Riccardo Billi e Mario Riva, Carlo Croccolo, Carlo Campanini, Raimondo Vianello e così via. Per dirla in maniera spicciola: tutti lavoravano e mangiavano, e per continuare a farlo bisognava avere sempre idee nuove, a costo di raschiare il barile. E poiché lo sblocco delle pellicole americane ferme durante la Guerra scatenò un incredibile assalto di comici senza precedenti – da Laurel e Hardy ad Abbott e Costello, i fratelli Marx, Bob Hope, Danny Kaye – i produttori italiani sentivano nell’aria la possibilità di una co-produzione. E guarda caso, in quel periodo Stanlio e Ollio erano tornati alla popolarità esibendosi nei teatri inglesi alla fine degli anni Quaranta, rendendosi accessibili alla vecchia Italia, dove la coppia era ancora popolarissima. Già alla fine del 1946 si pensò di inserirli in un contesto simile a quello del loro grande successo Fra Diavolo (1933), con loro due umili servitori pasticcioni e dal cuore d’oro, per una parodia de Le due orfanelle, il testo del 1874 di Adolphe d’Ennery ed Eugène Cormon, già alla base dell’omonimo film di David W. Griffith del 1921, e di una versione di Carmine Gallone del ’42. I due orfanelli, proposto da Mario Mattoli al giovane sceneggiatore Age, voleva sfruttare le scenografie di un film precedente di Mattoli, Il fiacre n.1, ed inserire Stanlio e Ollio, ma, come ha raccontato Age, i due comici al momento di concludere l’affare non erano disponibili, e così si ripiegò su Totò e Carlo Campanini. 


L’anno in questione, il 1947, era stato fittissimo nelle agende dei due comici americani: sbarcati a febbraio, rimasero nei teatri europei fino al gennaio dell’anno successivo. Pur prossimi ai sessant’anni d’età, erano ancora molto famosi: quando tornarono in America, scoprirono che i loro film vecchi degli anni Trenta trasmessi nella neonata televisione, avevano riscosso un grosso successo e avviato una nuova generazione di fan. La cosa non passò inosservata, e un finanziatore americano di nome George Bookbinder decise di sfruttare i suoi contatti con un produttore, tale Deutchmeister, che era affiliato all’Universalia, a capo Salvo D’Angelo, di Roma, per mettere in cantiere un film girato in Europa con Laurel e Hardy. L’idea principale era fare un film con Stanlio e Ollio e affiancarli ad altre star comiche: e nella fretta di pubblicizzare un film che praticamente non aveva ancora una sceneggiatura, nella primavera del 1950 i comunicati stampa spararono grossi nomi come quello di Totò e di Fernandel. Il sentore che si trattasse di una produzione confusionaria cominciò a farsi sentire proprio da queste mosse pubblicitarie: mentre Stan Laurel sbarcò a Parigi a maggio, seguito da Hardy a giugno, i nomi continuarono a cambiare, senza freni: spariti Totò e Fernandel, si stamparono i nomi di Carlo Croccolo, Walter Chiari, persino Macario, nessuno che farà parte del cast di quel film disgraziato che fu Atollo K


Saltiamo direttamente la faticosa lavorazione e le complicazioni di salute che ebbero i due attori americani, per andare – dopo questa premessa – ad un altro film che inizialmente era stato persino scritto per loro, una parodia sull’Antica Roma dal titolo O.K. Nerone. Il film è del 1951, e pur diretto da Mario Mattoli e con una squadra di sceneggiatori incredibile (Monicelli, Steno, Alessandro Continenza, Age e Scarpelli), non è quello che possiamo considerare una commedia riuscita, nonostante Walter Chiari e Carlo Campanini protagonisti, e con Gino Cervi e Silvana Pampanini di contorno: la storia ruota attorno a due marinai italo-americani in visita a Roma che vengono aggrediti da dei teppisti, e dalle botte ricevute sognano di essere nella Roma di Nerone. Le situazioni comiche partono soprattutto da qui, con questi due scemotti che parlano proprio come Stanlio e Ollio (anche se a volte l’accento sparisce nel nulla…) e insegnano a Nerone a giocare a biliardo e a rugby. Quando si risvegliano davanti al Colosseo, scoprono che il loro superiore è un ufficiale che ha il volto di Nerone, sempre interpretato da Cervi. Non era una trama irresistibile, e ricorrendo alle grazie della giovane e bella Pampanini nel ruolo di Poppea, il film ebbe grossi problemi con la censura in fase di revisione, che ordinò dieci tagli di cosce nude per dare il nulla Osta, per poi accordarsi a “soli” cinque. O.K. Nerone uscì nelle sale nel Natale del 1951, quasi in contemporanea con il film Atollo K con Stanlio e Ollio, incassando anche bene (418 milioni di lire d’incasso, nell’anno di Guardie e ladri con Totò e Fabrizi). Lo sceneggiatore Alessandro Continenza – ed ecco la fonte che ho citato prima - rivela che l’idea di averli in Francia e rinfrescato la possibilità di girare un film con loro, era naufragata per l’avanzata età dei due attori: “Una volta avevamo scritto un film con Steno, Monicelli, Age e Scarpelli che si chiamava O.K. Nerone, che doveva dirigere Soldati e poi diresse Mattoli. Il film era stato scritto per la Diana cinematografica, che lo voleva con Stan Laurel e Oliver Hardy, era la storia di due americani che si trovavano improvvisamente nell’antica Roma. Un film facile, qua e là scopiazzato: avevamo scritto ‘sta roba cercando di ricordarci le gag di Laurel e Hardy, per fare un film ‘alla maniera di’. Senonché, quando arrivarono, ‘sti americani erano due vecchi cadenti, e in Italia fecero un solo film, che si chiamava Atollo K e che fu un disastro. Così i produttori sostituirono a Stanlio e Ollio...Carlo Campanini e Walter Chiari! Il film andò abbastanza bene, però era un filmaccio!”. Col senno di poi, effettivamente i ruoli richiedevano un certo impegno fisico che Stan e Oliver, bontà loro, non erano più in grado di sostenere. Siete curiosi di vedere il film? Eccolo qui:


 

da "Ciak", 1994 (archivio B. Gemma)
Curioso, però, che due attori come Chiari e Campanini avessero sfiorato un progetto pensato per la coppia, perché in precedenza c’erano stati diversi punti di contatto. Walter Chiari, come si è detto, era talmente vicino ad interpretare Atollo K con Stan e Oliver da essere presente quando i due arrivarono a Roma, accolti da una enorme folla festante, nel giugno del 1950. L’impressione che ebbe dei due comici, racconterà anni dopo, non fu molto entusiasmante: “Avevano una paura maledetta, inesorcizzabile, dell’aereo. Arrivarono a Roma con un treno, perché non avevano mai viaggiato [in aereo]. Avrebbero potuto diventare miliardari, anche da vecchi, girando il mondo, facendo gli sketch, facendosi vedere. Li ho visti tristi, perché sono scesi, in un attimo la gente aveva stabilito che non servivano. Dio come sentono gli attori quando c’è la fine. Sono degli psicologici infallibili. Una cosa che posso dire è che mi ha fatto ridere, e non è crudele, le voci. Stanlio parlava con la voce di Ollio, e Ollio con la voce di Stanlio!”. Il rapporto con Campanini era meno diretto, ma molto interessante da ricordare: nella metà degli anni Trenta, agli inizi della sua carriera di attor giovane, si mise in coppia Carlo Dapporto per proporre uno sketch in cui facevano Stanlio e Ollio, idea che ebbe un certo successo presso il pubblico dell’avanspettacolo. L’imitazione, davvero ben fatta, è oggi visibile grazie alle riproposte che ne fecero in televisione negli anni Cinquanta.



Meno noto è il ruolo del doppiaggio: Campanini doppiò Stanlio e Ollio in una sola occasione, e non ufficialmente, nel ruolo di un doppiatore alle prese con il film I diavoli volanti (1939), per In due si soffre meglio (1943) diretto da Nunzio Malasomma. La scena è molto interessante, e in parte è una testimonianza dei doppiaggi dell’epoca (il film in origine era stato doppiato da Alberto Sordi e Mauro Zambuto due anni prima, nel ’41), riportata qui sotto.





Dapporto, invece, avrà modo di incontrare Laurel e Hardy a Milano durante il tour promozionale per Atollo K, nel 1950: ed è un peccato che quella occasione, registrata alla radio, sia andata smarrita. Sopravvivono però alcune foto e una preziosa testimonianza di Emilio Pozzi (a destra nella foto), giornalista presente a quel momento, che nel 1985 racconterà al Radiocorriere Tv: “Come radiocronista fui mandato al loro arrivo alla Stazione Centrale di Milano per intervistarli appena scesi dal treno. I mezzi tecnici allora non erano sofisticati, i collegamenti erano riservati a dirette importanti e si registrava su dischi e, d’altra parte, poiché l’arrivo era previsto per mezzogiorno, volevano andare in onda con il Gazzettino padano alle 12,40. Non sapevo l’inglese e non volevo rinunciare al servizio. Imparai alcune frasi, le recitai: i due risposero, io tradussi, a senso, indovinando le risposte. Il pomeriggio, poi, mi presentai alla conferenza stampa per un'altra intervista più ampia e destinata a Voci dal Mondo il settimanale radiofonico diretto da Vittorio Veltroni, in compagnia di un'interprete e di Carlo Dapporto che avrebbe dato la voce per la versione italiana, come al cinema. Stanlio mi guardò perplesso e mi domandò “Perché non parli? Da stamane hai dimenticato l'inglese?”. Feci spiegare che d’inglese conoscevo solo le quattro frasi usate la mattina. Scoppiarono a ridere di cuore. Presuntuosamente potrei ricordare quell’episodio come la volta che feci ridere Stanlio e Ollio”.

Il contatto con l’Italia non si concluse lì: nella corrispondenza privata di Stan, si legge che il loro agente aveva ricevuto una offerta per farli recitare nei varietà italiani – per uno spazio di uno sketch, che di una rivista intera – fra il ’51 e il 1952, ma come lo stesso Laurel immaginava, erano parole campate in aria che non ebbero seguito. La stanchezza fisica cominciò a farsi sentire, e dopo qualche anno i due decisero di ritirarsi, non avendo più l’età neanche per fare i gladiatori per i produttori del Belpaese.


(la fonte della dichiarazione di Continenza è L'avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti, di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Feltrinelli, 1979).