martedì 29 novembre 2022

In libreria la storia della Gialappa's Band

Crescendo - o invecchiando, punti di vista - si rivedono cose che nell'infanzia ti avevano divertito invecchiare veramente male. I programmi comici, ad esempio, sono le prime vittime. Esempio, "Drive In", a me personalmente ora non mi smuove neanche un sorriso. Alcuni programmi della Dandini, lo so che finirò all'inferno, stessa reazione. Chi invece ancora mi diverte e stiamo parlando di un programma iniziato quando io ero piccolo e me lo sono trascinato fino a qualche anno fa, è proprio la serie "Mai dire". Insomma, vuoi o non vuoi, la Gialappa's Band fa ancora ridere. Prima Banzai, poi Gol, poi Tv, poi Grande Fratello, poi Sanremo, perdo il conto, dal 1990 ad oggi ci hanno trascinato in un mondo parallelo di risate, io poi che di calcio non capisco una mazza, ma andavo matto per la squadra di comici che hanno trascinato nei loro programmi. E sono tanti, se vi mettete a contarli vi spaventereste per la qualità e quantità raccolta. Organizzavamo le serate con gli amici per vederli, parlavamo con i loro tormentoni, siamo riusciti sopratutto a farci digerire quelle cagate dei reality show, e perdonato "Tutti gli uomini del deficiente", brutto film da loro diretto nel '99.


Insomma, alla Gialappa's Band si è voluto tantissimo bene. Quindi una loro autobiografia orale, piena di "ospiti", l'aspettavo da tanto, e questo libro l'ho divorato in due giorni. A parte che fa parecchio ridere (è come leggere un audiolibro con le loro voci), è stata una immersione totale di ricordi, personaggi e sopratutto una bella scoperta umana sia di loro tre - Carlo, Giorgio e Marco - che degli amici comici che intervengono qui e là. C'è molta simpatia, qualche sassolino tolto (nei confronti della Rai e non solo), ma anche qualche sorpresa commossa. Come il finale con Teocoli, ecco, non me l'aspettavo.



Io qualche foto l'avrei messa, però già 424 pagine non sono poche. Vi perdono, e datemi retta, fate un audiolibro Gialappi. Sai che risate?


giovedì 17 novembre 2022

Leo Gullotta, la serietà del comico

In occasione dei suoi 60 anni di carriera, l’attore Leo Gullotta racconta ad Andrea Ciaffaroni il proprio intenso percorso di vita, costellato da ruoli diversissimi, dalla commedia al drammatico, dal teatro al cinema, dal cabaret al varietà televisivo, alla radio e alle fiction, senza citare una lunghissima e apprezzatissima carriera da doppiatore. 

La testimonianza di Leo comincia dagli esordi nel teatro al fianco di Turi Ferro, Salvo Randone e Ave Ninchi, per poi spostarsi a Roma, dove debutta nel cabaret e muove i primi passi come doppiatore e nel mondo del cinema.
Tanti i nomi che incontra lungo il suo cammino: Nanni Loy, Nino Manfredi, Giuseppe Tornatore, senza dimenticare la felice esperienza del Bagaglino.
Quelle che leggerete sono sì pagine che parlano di una vita sul palcoscenico e sullo schermo, grande o piccolo che sia, ma parlano anche dell’uomo dietro l’attore: una persona guidata sempre dalla curiosità, cosa che ha contribuito a fare di Leo Gullotta uno degli ultimi veri attori del nostro mondo dello spettacolo. Il volume è corredato di un sedicesimo di foto rare e inedite. 
In uscita per la prima settimana di dicembre 2022, qui per preordinare il volume.

Il 12 dicembre, invece, Leo Gullotta e Andrea Ciaffaroni saranno ospiti alla presentazione del libro nel contesto di un Sagoma Day, un intero pomeriggio dedicato alle nuove pubblicazioni di Sagoma Editore. Il luogo sarà la Casa del Cinema, e l'appuntamento con questo libro sarà alle ore 17:00, moderato da Stefania Ulivi, giornalista del Corriere della sera. Questa la locandina della giornata con gli altri appuntamenti in agenda.


domenica 25 settembre 2022

Vita privata di Sherlock Holmes

Nel ricordo come spettatore, The Private Life of Sherlock Holmes (1970) era per me uno dei migliori film di Billy Wilder, e rivedendolo recentemente posso ancora confermarlo, aggiungendo col senno di poi che è in assoluto la più bella versione apocrifa del famoso investigatore inglese. Eppure, quando uscì nelle sale fu un fallimento; per di più, ruota più interesse sulla sua travagliata storia produttiva che il film in sé, e nell’articolo di oggi cerco di ricostruire cosa successe attorno a questo “vulnerabile” Sherlock Holmes.

Billy Wilder aveva cercato di realizzare il suo film con Holmes sin dal 1955, quando lo propose senza successo a Rex Harrison, e poi nel 1963, con in lizza Peter O’ Toole e Peter Sellers nei panni rispettivamente di Holmes e del dottor Watson. Il film con i due “Peter” stava diventando realtà proprio agli inizi del’64 quando Sellers aveva cominciato le riprese di Kiss Me, Stupid per la regia di Wilder e le cose stavano procedendo filate. Purtroppo, il metodo di lavoro di Wilder rigido e ligio al copione si scontrò con la voglia di improvvisare di Sellers, e i rapporti cominciarono ad essere tesi. Il set confusionario com’era abituato avere Wilder stava stretto al concentrato Peter, sempre meno sicuro e tormentato dalle indicazioni del regista di fare come Jack Lemmon, di abbandonarsi cioè alla “magia” del set, e quando si presentò un fine settimana libero prese la famiglia, si fece prestare da Wilder dei soldi, e scappò a Disneyland. Sellers non tornerà più sul set: colpito da un grave infarto e costretto al riposo forzato, Wilder lo sostituirà velocemente, e così ogni progetto con l’attore sarà cestinato. 


Verso il 1967, Wilder e il suo sceneggiatore fidato I. A. L. Diamond cominciarono a scrivere la sceneggiatura basata su quattro storie inedite del dottor Watson che non erano state pubblicate perché contenevano questioni personali riguardanti Holmes, e venute alla luce cinquant’anni dopo la morte del dottore da suo nipote, incaricato come da disposizioni di Watson di aprire un baule contenenti ricordi delle sue avventure, e un manoscritto impolverato.  Disse Wilder: “Mi interessava questo scapolo misogino, il modo in cui funzionava il suo cervello. «Il migliore del secolo», come disse Watson del suo carissimo amico. Era solo una macchina pensante? Un occhio straordinario con grande intuizione? Con una grande combinazione di talenti? O c'era qualcosa nella sua vita che lo feriva, che gli dava emozioni? Odiava le donne? Perché si drogava? (lo sai che ha preso la cocaina.) Ho dovuto esplorare tutto questo, oltre alla sua meravigliosa relazione con Watson, un medico piccolo-borghese in pensione dall'esercito. Era una situazione come La strana coppia, solo con uno sfondo vittoriano: due scapoli che vivono insieme. L’abbiamo reso divertente e romantico. Non era un’analisi freudiana”. 

Il primo aspetto che caratterizzò una delle difficoltà che coinvolse la produzione fu la sceneggiatura. Tanto fu l’entusiasmo che Wilder e Diamond impostarono lo script come un film a episodi, che sono:

 

The Case of the Upside-Down Room

L’ispettore Lestrade invita uno annoiato Holmes a raggiungerlo nel quartiere di Limehouse per investigare sulla morte di un cinese, trovato senza vita in una stanza dove i mobili sono inchiodati al soffitto. Holmes liquida il caso come un falso architettato da Watson per distrarlo dall’uso di cocaina. (foto a sinistra)

The Singular Affair of the Russian Ballerina

Holmes viene invitato a passare del tempo con la famosa ballerina russa Madame Petrova in modo da concepire quello che lei definisce il futuro bambino perfetto, ma gentilmente l’investigatore declina l’offerta perché confessa di vivere con Watson poiché concubini. Watson, saputa la cosa, si arrabbia notevolmente con Sherlock per averlo fatto passare come omosessuale.

The Dreadful Business of the Naked Honeymooners

Holmes e Watson sono sulla nave di ritorno da Constantinopoli nell’estate del 1886, e vengono contattati dal capitano per investigare sue due cadaveri trovati in una delle cabine; per dimostrare la sua intelligenza, Watson propone a Holmes di investigare al suo posto, e letteralmente si scambiano i loro cappelli. Watson cerca di risolvere da solo il caso, quando si rende che si ritrovano nella cabina sbagliata. (foto sotto).

The Adventure of the Dumbfounded Detective

Una bellissima donna belga viene accompagnata a casa di Holmes priva di memoria e in fin di vita. Presto si scopre che è moglie di un ingegnere scomparso che stava lavorando ad un progetto di un sommergibile per conto del fratello di Sherlock, Mycroft, nella città di Loch Ness, in Scozia, camuffato proprio come il famoso mostro. Durante il viaggio in treno, Holmes confida a Gabrielle di essere stato innamorato di una ragazza quando era uno studente a Oxford, poi rivelatisi una prostituta. Questo inganno insegnò a Holmes che un coinvolgimento sentimentale nella sua posizione era impossibile.

 

Sono queste le storie che il regista voleva raccontare con il cast giusto. Senza O’Toole, troppo esigente per i suoi gusti, Wilder trova il volto giusto nell’attore Robert Stephens. Era il tipico attore inglese formatosi nel teatro impegnato, nel suo caso guidato dal mitico Laurence Olivier e spesso designato come suo erede. Al cinema aveva recitato in Cleopatra(1963), Romeo e Giulietta (1968) e La strana voglia di Jean (1969), ma a quanto pare Billy non aveva mai visto Stephens esibirsi sul palco o in un film prima d’ora. Aveva a malapena messo gli occhi su Stephens: “Non avevo mai visto Stephens se non per venti minuti al bar del Connaught Hotel. Ma ho pensato: «Ciò che è abbastanza buono per Larry Olivier è abbastanza buono per me»”. Come ha ricordato Stephens, “Abbiamo bevuto un drink. Non ho letto nulla o fatto un’audizione. Abbiamo chiacchierato e me ne sono andato. Ho pranzato con un amico drammaturgo e quando sono tornato a casa c’era un messaggio di chiamare il mio agente. Billy Wilder voleva che interpretassi Sherlock Holmes. Ero più euforico di quanto non lo fossi mai stato in vita mia”. Wilder disse a Stephens che non voleva che il film fosse buono o anche molto buono ma perfetto. Secondo Stephens, “Non gli importava quanto tempo ci volesse”.

Un attore scelto per il ruolo di Mycroft, il fratello maggiore di Holmes, fu George Sanders, ma dopo una settimana le sue condizioni di salute lo obbligarono a lasciare il suo film, con grande suo rammarico. Wilder lo sostituì con Christopher Lee. I fan di Sherlock ricorderanno che aveva già interpretato Henry Baskerville in The Hound of the Baskervilles (1959) con Peter Cushing, poi Sherlock Holmes in Sherlock Holmes und das Halsband des Todes (1962), e lo sarà ancora nei film per la tv Sherlock Holmes and the Leading Lady (1991) e Incident at Victoria Falls (1992). Per Lee, l’esperienza con Wilder fu una delle più importanti della sua carriera. Sul set, Wilder non faceva mai menzione della carriera precedente di Lee come il dottor Dracula, ma una volta solamente mentre giravano degli esterni notturni nel tetro lago di Loch Ness, mentre svolazzavano dei pipistrelli gli disse, “Scommetto che ti sentì un po’ a casa”. Colin Blakely fu scritturato come il dottor Watson: come Stephens, anche lui faceva parte della compagnia teatrale di Laurence Olivier.


Vita privata di Sherlock Holmes iniziò le riprese ai Pinewood Studios di Londra a metà maggio del 1969, con un budget di 10 milioni, di gran lunga il più grande della carriera di Billy. C’erano diversi set elaborati da costruire, tra cui una vasta distesa di Baker Street, un intero transatlantico costruito su scala considerevole e un sottomarino funzionante a forma di mostro di Loch Ness. La United Artists e la Mirisch Company giustificarono questi costi pianificando un trattamento speciale per Sherlock Holmes, seguendo lo schema che avevano già testato con altri precedenti grandi successi realizzati: una distribuzione limitata e un biglietto del cinema più caro, avrebbero reso il film più “esclusivo” e importante. La strategia aveva funzionato con My Fair LadyLawrence d’ArabiaDr. Zivago, e loro erano convinti che si sarebbe ripetuto il successo. 

Intervistato da Cameron Crowe, Wilder ebbe parole d’elogio per il suo prim’attore: “Stephens era un uomo meraviglioso. Era un bravissimo attore e somigliava moltissimo a Sherlock Holmes, almeno come me l'ero sempre immaginato. Nel privato era cordiale e gentile, e sul set recepiva le mie indicazioni con estrema docilità”. Crowe incalza che Stephens aveva dichiarato nelle sue memorie che quella di Sherlock Holmes era stata un'esperienza snervante, e allora Billy si giustificò: “Non era abituato a lavorare al mattino presto. Gli attori di teatro iniziano di pomeriggio e recitano tutto il testo senza interruzione. Adoravo lavorare con lui. Era un attore colto e molto professionale, capace di memorizzare pagine e pagine di dialogo senza errori. Ad ogni stop, avrebbe potuto tranquillamente andare avanti per altre quattro o cinque pagine!”.

Eppure, più scene girava Robert Stephens, più diventava esasperato per le richieste di precisione di Wilder e Diamond. La fiducia di Stephens veniva consumata ogni giorno che passava mentre lottava per dare forma, suono e gesti a quella che Billy continuava a chiamare la sua “storia d'amore tra due uomini”. Quando stavano girando la scena in cui Holmes, in un negozio abbandonato con Watson e Gabrielle, sega una inferriata, scivola attraverso il passaggio e salta su un materasso sottostante, a Wilder non piacque affatto quello che aveva visto. Agitando furiosamente le indicazioni con un fazzoletto, Billy gridò: “Dai! Ci sono cervello e muscoli lì! Fallo sembrare difficile!”. Ciak due, ma niente, “C'è una mancanza di eleganza in quel taglio!” urlò Billy. Gli attori erano scossi, in particolare Stephens. Fortunatamente per loro, la ripresa successiva fu buona. Tuttavia, Stephens si sentiva come se fosse “passato attraverso il tritacarne ogni giorno”. Riferendosi al modo in cui a volte tratta i suoi attori, Wilder una volta ha detto che “a volte devi solo farlo con una frusta e a loro piace”. Ma non sempre. Anche Colin Blakely non era felice, ma aveva affrontato la tensione meglio di Stephens. Entrambi gli uomini furono scioccati dall'insistenza di Billy nel sottolineare ogni gesto con l'ultima sillaba. “Passavamo ore su una frase del tipo «Se la porta dello studio fosse aperta...» il che non significava assolutamente niente”, scrisse Stephens, “cambiando l’enfasi, sbattendo un martelletto o un posacenere sulla scrivania proprio mentre dicevamo l’una o l’altra sillaba finché l'intera cosa non si è asciugata completamente e ti è venuta voglia di correre, urlare, fuori dal set. Che è più o meno quello che ho fatto”.


Ad un certo punto si rischiò di non finire il film. Il 14 ottobre 1969, su Variety apparve un minuscolo trafiletto con sopra scritto: “Robert Stephens, che ha recitato in La vita privata di Sherlock Holmes per Billy Wilder, ha dovuto ritirarsi per ordine del medico dal cast del film Tre sorelle, per la regia di Laurence Olivier. Stephens è stato sostituito da Alan Bates”. I giornali britannici riferirono in seguito che Stephens era crollato per la stanchezza e lo stress, ma in realtà si era quasi suicidato. I suoi nervi erano crollati. Dimagrato su richiesta di Wilder per il ruolo, si sentiva debole, ed era costretto ad un calendario di riprese fitto di dodici ore al giorno per settimane, mentre sua moglie, Maggie Smith, era andata nel Sussex con i loro due figli per recitare in una commedia. Il suicidio non era l'obiettivo di Stephens, almeno non a livello cosciente, ma nel bel mezzo delle riprese inghiottì una pila di sonniferi e li ha innaffiati con una bottiglia di whisky. La produzione si bloccò diverse settimane, e Wilder fu preso da un senso di colpa profondo. Come ha scritto Stephens, “Billy era terribilmente sconvolto e disse che era tutta colpa sua. Ma non lo era, davvero. È stato il culmine delle cose”. Billy, scosso e contrito, decise di non preoccupare la sua star: “Avremmo continuato e finito il film e saremmo andati un po' più piano e non avremmo affrettato le cose”, ha ricordato Stephens quanto gli disse Wilder. “Ma ovviamente quando sono tornato era tutto esattamente lo stesso”. Le riprese si concluderanno nel mese di novembre, con la troupe letteralmente sfinita.

 


Nel marzo 1970, Wilder tornò a Londra per un’apparizione al National Film Theatre, e rispondendo a una domanda su come si fosse rivelato Holmes, Wilder rispose: “È come chiedere a una donna incinta com'è il bambino. Non l'ho ancora visto e non lo farò finché non lo vedrò con un pubblico”. 

In effetti, aveva sicuramente visto il montaggio di tre ore e venti minuti che lui e il suo montatore, Ernest Walter, avevano consegnato alla Mirisch di Los Angeles. “Con mio grande stupore, si sorpresero parecchio”, ricorda Walter. “Ma avendo letto la sceneggiatura, in primo luogo, era ovvio che sarebbe stato un lungo film”. L’ansia della United Artists e dei fratelli Mirisch per il film lungo, esorbitante e intimo di Billy aumentò notevolmente dopo le anteprime iniziali: il pubblico l'aveva trovato noioso. Allarmati, chiesero a Billy di ridurre considerevolmente il film. 

Ricordò a Crowe: “L’anteprima andò piuttosto male e io... lo lasciai al suo destino. Non avevo nessuna voglia di risistemarlo. Mi trovai una situazione molto sgradevole, ed è stata l'unica volta che ho abbandonato un film. Era stato girato a Londra e non potevo tornare indietro e cercare di metterci una pezza girando nuove scene. Inoltre stavo già preparando il film nuovo”. Secondo lo scenografo Alexandre Trauner, il massacro di Holmes “non è avvenuto senza resistenza da parte sua. Ma Wilder pensava che se un film non è un successo immediato è perché ha fallito. Quindi ha lasciato che tagliassero le sequenze, e fu davvero un peccato”. Le parole del regista trent’anni dopo sono ancora ferite: “Misi Sherlock Holmes nelle mani fidate del mio montatore e degli amici della Mirisch Films - e lo massacrarono. Tanto che fui costretto a prendere un montatore inglese (Ernest Walter). Fu complicato da girare, molto. Il montatore e il produttore, poi, avevano idee ben precise su quali parti tagliare. Peccato che non coincidessero con le mie. Fu davvero un brutto periodo. Io adoravo quel film. Me lo hanno distrutto”. 

“Suggerii di rimuovere completamente l’episodio Upside-Down Room”, riferì Ernest Walter. Wilder lo fece ma la United Artists e i Mirisches erano ancora scontenti, quindi anche il prologo in banca con il nipote di Watson, il flashback su Oxford e la prostituta e l'intero Case of the Naked Honeymooners furono eliminati. Walter era preoccupato anche del finale poi montato, con Holmes che apprende della morte di Gabrielle e si ritira nella sua stanza con la cocaina, e suggerì a Wilder di tenere quello più buffo di Rogozhin, il valletto della ballerina russa che voleva accoppiarsi con Holmes, che arrivava a 221B di Baker Street per offrire delle rose a Watson, memore di quanto gli avesse detto Holmes sulla sua sessualità. Era un finale quasi omaggio di A qualcuno piace caldo, ma Wilder si rifiutò preferendo quello più triste. 


The Private Life of Sherlock aprì la sua corsa nelle sale al Radio City Music Hall di New York il 19 ottobre 1970 ed era già scomparso prima del Ringraziamento. Il suo intero guadagno fu di $1,5 milioni. La critica reagì bene sottolineando l’eleganza della operazione, mentre puristi gridarono alla lesa maestà e il pubblico non si divertì molto, forse perché non si aspettava uno Sherlock Holmes così diverso dal solito. In Italia uscì nel gennaio del 1971 con reazioni tiepide. Vale la pena citare almeno l’ottimo doppiato, con Gigi Proietti voce di Holmes e Luciano Melani voce di Watson.

Quindi, nei suoi finali 125 minuti il film racconta il fallimento di Sherlock come investigatore ma anche come uomo, distratto dai sentimenti e dall’ambiguità del personaggio di Gabrielle. Purtroppo, eliminando l’episodio di Oxford e della delusione con le donne, il film non spiega chiaramente la misoginia del personaggio con l’episodio della ballerina russa, lasciando il dubbio che Holmes più che non fidarsi per motivi passati, le donne sono per lui un ostacolo per la sua mente. C’è da dire che nonostante la travagliata storia produttiva, il film funziona benissimo ancora oggi e anzi conquista maggior fascino con il tempo che passa.

 

Il “macello” in moviola

 

Nonostante a Wilder non importasse più nulla del materiale tagliato, negli anni grazie alle edizioni home-video è stato possibile ricostruire quali sequenze avessero insoddisfatto i dirigenti della United Artists e della Mirisch. Dapprima nel laserdisc uscito nel 1994, e nel Blu-ray della Kino del 2014, nessuna scena è stata ritrovata completa di audio e video, e sono ricostruzioni effettuate con il sonoro ritrovato, brani di sceneggiatura e un filmato muto, sottotitolato per l’occasione. Qui trovate una recensione dettagliata del blu-ray. L’unico frammento di cui è rimasto un video è quello della coppia in luna di miele. La ricerca continua…

 

 


Fonti di riferimento

 

Sherlock Holmes on screen (Titan Books, 2011), di Alan Barnes; Knight Errant: Memoirs of a Vagabond Actor (Hodder & Stoughton, 1995), di Robert Stephens, con Michael Coveney; On Sunset Boulevard: the life and times of Billy Wilder(Hyperion, 1998), di Ed Sikov; Sherlock Holmes: a centenary celebration (Harper & Row, 1986), di Allen Eyles.

 

lunedì 29 agosto 2022

Centenario di Vittorio Gassman, la monografia nel quinto numero di “Visioni di Cinema”

Dopo le monografie dedicate a Pier Paolo Pasolini e Ugo Tognazzi, Visioni Corte International Short Film Festival, uno dei maggiori eventi italiani dedicati al cortometraggio che si svolge a Gaeta (LT) da undici anni, dedica il quinto numero di “Visioni di Cinema” a Vittorio Gassman, in occasione del centenario della sua nascita che ricorre il 1° Settembre. Il progetto editoriale di approfondimento di critica cinematografica, nato lo scorso anno con i primi due volumi dedicati a Federico Fellini e Vittorio De Sica, e proseguito appunto con le pubblicazioni dedicata a Pasolini e Tognazzi, approfondisce ora l’opera del grande attore e regista italiano nato a Genova il 1° Settembre 1922 e scomparso il 29 giugno 2000.

Da giovanissimo Vittorio Gassman ha davanti a sé un futuro nel basket ma poi, dopo la scuola, decide di iscriversi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Comincia così la carriera di uno dei più grandi attori italiani del dopoguerra, un gigante del Novecento diventato una vera e propria icona con i suoi film. Una carriera che ha spaziato tra cinema, teatro, tv, poesia, riuscendo in quello che sono i grandi possono: coniugare la cultura alta con lo spettacolo popolare.

Il volume, il quinto della serie di “Visioni di Cinema – Quaderni di Visioni Corte Film Festival” curata dal giornalista Giuseppe Mallozzi, vuole essere un omaggio al grande attore e regista, in occasione del centenario della nascita. Hanno partecipato con i loro scritti i critici cinematografici Ciro Borrelli, Andrea Ciaffaroni, Gianmarco Cilento, Francesco Mattana, Domenico Palattella, Davide Persico, Roberta Verde, approfondendo vari aspetti della sua carriera.

Il libro, edito da Ali Ribelli, è in prevendita sul sito www.aliribelli.com e tra pochi giorni sarà disponibile in tutti gli store online e nelle librerie.

venerdì 26 agosto 2022

Ma i comici devono essere brave persone?

Da quando la
mia passione per la comicità è diventato un lavoro freelance come scrittore, mi sono spesso posto il quesito se nel raccontare la vita di un attore bisogna scindere il lavoro dalla vita privata. La risposta è duplice ma legata ad una mia etica professionale: quando ho raccontato la vita di Peter Sellers, il focus principale che mi sono imposto è stato quello di un resoconto del suo contributo alla comicità inglese e ai ruoli più significativi della sua carriera, ma nel suo caso era impossibile nascondere la sua personalità difficile, soprattutto quando cominciò a dare problemi sul set fino a rovinarsi la carriera. Ma Sellers, bontà sua, era un caso raro nel mondo dei cosiddetti “comedians”, perché non tutti avevano un lato oscuro o erano difficili da trattare. La domanda che spesso ci si pone è la seguente, com’erano dal vivo questi signori?, quando quella che mi pongo oggi è un’altra, ma devono per forza essere anche brave persone? Se esserlo è un modo per mantenere una figura familiare, piacevole da incontrare, in modo da non farsi odiare dal pubblico, è una mossa giusta per un attore, quanti aneddoti avete sentito di quell’attore che ha rifiutato un autografo, una foto, e trattato male un fan? Oggi poi il pubblico è spietato: è successo di recente che una cantante italiana è stata crocifissa sui social perché ha rifiutato di firmare due autografi ad un concerto, nonostante avesse contestualizzato il suo gesto; Carlo Verdone, uno che a forza di concedersi ai fan ha dichiarato di avere poca vita privata, non schiva gli insulti se questo non succede; ed è ridicolo come il pubblico italiano ammiri di più gli artisti stranieri per la loro disponibilità, perché dimenticano che tutti nel mondo dello spettacolo sono umani, e anche loro con le giornate storte possono anche aggredirti se risulti invadente (come è successo a Tom Hanks, sant’uomo). Gli attori non sono schiavi del pubblico, possono rendersi disponibili perché a loro fa sempre piacere il riconoscimento – e l’ho imparato bene da uno che è sempre cortese e disponibile, come Leo Gullotta - , ma credo che la convinzione che gli attori, e special modo quelli più amati per la loro simpatia come i comici, debbano essere brave persone, è sbagliata. E’ sempre bello incontrare il proprio mito, ma il rischio di scottarsi è altissimo. A volte sarebbe meglio evitarlo. Per esempio, Renato Pozzetto è una persona poco amabile: non c’è commento benevolo su un incontro informale con lui. Eppure rimane uno dei comici che preferisco, tanto da avergli dedicato un libro con Sandro Paté. Su Nino Manfredi, soggetto del mio terzo libro, me ne hanno dette di tutti i colori, dall’avarizia alla cattiveria in età avanzata, ma in questo caso non li ho ritenuti argomenti preziosi per raccontare la sua carriera. La gente poi si convince da chissà quali pettegolezzi, duri a morire, come il povero Alberto Sordi, marchiato avaro a vita, che invece faceva beneficenza di nascosto. Ma attenzione, un conto il gossip, un conto l’aneddoto che potrebbe farti capire com’erano alcuni personaggi, e qui entro nell’argomento principale, fantasticando su chi avrei puntato assolutamente per un incontro, una breve chiacchiera. 

Tralasciamo i Nostri, voliamo in America nel secolo scorso. Fra i comici americani, molte testimonianze garantiscono che Buster Keaton fosse timido, taciturno, non che sottolineassero una sua maleducazione, perché altrettante sono le storie di cortesi incontri, spesso con lo scioccante dettaglio che Keaton, il comico sempre serio, nella vita privata fosse tutto sorrisi e grandi risate; certo non erano comici che trovavi in giro a passeggiare, anche perché alcuni come Charlie Chaplin erano irraggiungibili, rinchiusi negli studi a lavorare o dietro il cancello delle loro ville, ma proprio Chaplin viene raccontato più amabile con i fan che con la sua troupe. Non era poi uno che scriveva lettere, come invece faceva colui che era probabilmente il più disponibile, e cioè Stan Laurel: ma Stan andava oltre, negli anni della pensione era raggiungibile sulle pagine gialle e la domenica potevi prenotare una visita nel suo appartamento a Santa Monica. Se Stan rispondeva alla corrispondenza, il compagno Oliver Hardy era più pigro, tanto da usare un timbro con la sua firma piuttosto che farla di suo pugno, ma gli aneddoti sul suo carattere da gentiluomo abbondano. A quanto pare entrambi non si risparmiavano con i fan, né erano di frequente cattivo umore con la troupe. 

Il problema è che il pubblico non vuole essere tradito; quindi, quando uscirono storie di profonda cattiveria riguardanti Bob Hope o Jerry Lewis, la delusione fu cocente. Hope, poi, era l’uomo delle battute negli eventi importanti di beneficenza, e leggere che gettava i salari dei suoi battutisti dalle scalinate del suo ufficio, giusto per la gioia di vederli in terra a raccoglierli, fa abbastanza male. Jerry deve aver avuto una personalità complessa, egocentrica: personalmente non mi ha mai interessato la cosa perché l’ho sempre amato, ma alcune storie di profonda cattiveria nei confronti della troupe o dei fan (o anche della sua ultima moglie) non possono essere ignorate. Con l’età, Lewis si è poi addolcito tanto da essere severo con se stesso quando scrisse un libro sul suo rapporto con Dean Martin, ma l’ultimo capitolo della sua vita fu così perfido da aver inorridito tutti, con l’esclusione dal suo ricco testamento la maggior parte della sua numerosa prole. Ed è quindi un bene non sapere certe cose, perché alcune storie non brillanti hanno interessato comici all’apparenza buoni, da Danny Kaye a Lou Costello, e altre invece di carineria e disponibilità di comici noti per essere cinici, come W.C. Fields e Groucho Marx, anche se su Groucho ho dei dubbi: la sua lingua era lunga abbastanza da aver ferito parecchie persone che hanno documentato la cosa. Alcuni invece erano l’opposto del suo personaggio – il grande equivoco del pubblico! – come Jacques Tati, non esattamente il buon Hulot dello schermo, o Fernandel, simpatico sì ma facilmente collerico, e altri che sembra rispecchiassero quella bontà, come Benny Hill o il francese Louis De Funés. 

Io personalmente ho conosciuto diversi comici, alcuni anche bene, e credo di essere stato fortunato ad aver raccolto personalmente momenti simpatici e piacevoli: ed è vero, l’animo del clown a volte riflette su una persona buia e spesso serissima. Una delle storie che preferisco è quella di Walter Matthau con Charlie Chaplin: lui e sua moglie erano molto amici di Chaplin ai tempi dell'esilio in Svizzera: e se le loro mogli si fossero ritirate per parlare, Matthau avrebbe alzato gli occhi al cielo perché era costretto alla compagnia tragica e noiosa del vecchio Charlot. Parlare con alcuni comici giunti al capolinea non è un bello spettacolo, ma potrebbe rivelarsi interessante. Del resto, anche Maurizio Nichetti mi disse che quando incontrò a Parigi il vecchio Jacques Tati, in occasione di una proiezione del suo primo film, lo trovò acido, burbero e pessimista, ma poi si ricrederà quando venne invitato a casa sua per parlare del suo film e persino parlare di una collaborazione. 

Siamo poi sicuri di voler solo un autografo o una foto ricordo? Alcuni attori li ritengono gesti inutili, ecco perché Jim Carrey preferisce fermarsi a fare due chiacchiere. Il selfie blocca la vita, mentre dirsi "ciao come va?" mantiene un certo rapporto umano. Vogliamo mettere?
Mi vengono in mente due personaggi che sono state vittime del loro stesso personaggio, pur senza fargliene una colpa. Ma John Belushi aveva ammiratori che gli giravano attorno offrendogli cocaina o, peggio come è stato raccontato, lo aggrediscono infilandogli un panino in bocca (sì è ironico, ho scritto che è peggio un panino in bocca che la cocaina, ma credo abbiate capito cosa intendo). O Robin Williams, che per natura era sempre divertente e andava in depressione quando non gli riusciva esserlo.


Personalmente io preferisco capire com’erano sul lavoro, il metodo e il rapporto con la produzione, un dettaglio più importante che pochi riescono a carpire: certo, è interessante sapere che Totò ci teneva ai salamelecchi e dovevi chiamarlo “Principe”, ma lo è molto di più capire come interveniva sulla scena (e potrebbero avere un atteggiamento totalmente diverso, non credete?); Paolo Villaggio, prepotente e pigro, è forse quello che meno avrei voluto incontrare, e così è stato. Peter Sellers forse mi avrebbe ingannato: gentile con i fan, sul set era meglio stargli lontano e a casa non era per nulla tenero, ma ai giornalisti si concedeva con gusto. Una volta ho incontrato Ben Stiller a Roma mentre stava preparando “Zoolander 2”: un incontro informale, in una libreria, e si concesse volentieri ad una foto e due chiacchiere che gli feci su “Tropic Thunder”. Vidi anche Tom Hanks, disponibilissimo, a Londra. Eppure fidatevi, non dobbiamo farli sentire brave persone, perché come tutti noi potrebbero non esserlo. La risposta alla domanda è questa, concludendo che fra tutti questi avrei scelto ovviamente Stan Laurel. Ma se l’avessi trovato con la luna storta, non avrei mai cambiato opinione su di lui, perché alla fine quello che importa è quello che vedi sullo schermo.

giovedì 4 agosto 2022

La vera storia dell'Oscar negato a Don Camillo

Dopo aver lavorato ad un documentario su cosa e perché i primi due film della saga di Don Camillo avessero due versioni girate in francese e in italiano, ritorno a parlare di un altro aspetto poco conosciuto che riguarda il primo capitolo, diretto da Julien Duvivier e noto semplicemente come Don Camillo (1952). Oggi è difficile trovare qualcuno che non abbia visto almeno un film con Fernandel parroco battagliero contro il sindaco comunista Gino Cervi, e per questo ritengo non ricordare di cosa parlassero. Il film ebbe un enorme successo alla sua uscita nel marzo del 1952, balzando nella classifica dei maggiori incassi di quell’anno con la cifra record di 1 miliardo e 468 milioni di lire, quanto bastò per girarne altri quattro fino al 1965 (o cinque, se contiamo anche il film Don Camillo e i giovani d’oggi, iniziato nel 1970 e non completato per la morte improvvisa di Fernandel) sempre con moderato successo.

Forte del trionfo ottenuto con il romanzo tradotto negli Stati Uniti nel 1950 con il titolo The Little World of Don Camillo, il film arrivò in America nel gennaio del 1953 con la voce d’eccezione per il commento fuori campo di Orson Welles. Ottenuti grandi consensi oltreoceano, si pensò persino di inserirlo nella lista dei film scelti dalla critica newyorkese come miglior film straniero, ma quanto pare a nessuno venne in mente di candidarlo ai premi Oscar del 1954. All’epoca gli States stavano vivendo un periodo caldissimo a causa della Guerra Fredda, e le attività antiamericane avevano reso molto tesi i rapporti nella comunità di Hollywood con i simpatizzanti comunisti: com’è noto agli storici, il senatore repubblicano Joseph McCarthy fu a capo della Commissione che indagava sul pericoloso “rosso” fra il 1953 e il 1955 – periodo definito “Maccartismo” – e fece di tutto per alimentare il boicottaggio contro i comunisti americani. Già alla fine degli anni Quaranta, molti artisti di Hollywood furono convocati per testimonianza volontaria (Walt Disney fra questi) o per rispondere all’accusa di avere simpatie di sinistra. Veniva colpito anche il solo pensiero liberale: a Charles Chaplin, in America dal 1912, fu proibito rientrare negli States non appena si imbarcò per andare a Londra in occasione della prima di Luci della ribalta, nel 1952. Se l’FBI indagava alla luce del sole, la CIA tramava nel buio, ed è qui che torniamo a Don Camillo

Luigi Luraschi, o' spione
Un nome è stato trovato da David N. Eldridge, professore all’università di Hull che nel 2000 pubblicò un dossier sul rapporto della CIA con Hollywood, quello di Luigi Luraschi. Di origini italiane ma nato a Londra nel 1906, era un poliglotta che parlava cinque lingue, incluso l’arabo, una formazione internazionale che Luraschi aveva grazie ai numerosi viaggi che compiva per la sua famiglia, impegnata in affari con una catena d’alberghi: nel 1933 entrò alla Paramount come responsabile degli affari esteri degli Studi, e tre anni dopo, nel ’36, fu incaricato nella corrispondenza con le succursali europee per le note di censura. I rapporti di Luraschi erano quindi governativi, in quanto la censura era rigidamente controllata dal Production Code Administration (un decalogo “morale” meglio noto come Codice Hays). Quando nel 1947 fu eletto come nuovo presidente della Motion Picture Association of America (MPAA), Eric Johnston, egli mise in atto la sua intenzione di migliorare i rapporti con i mercati internazionali chiedendo all’Academy di istituire un premio oscar alla categoria di Miglior Film Straniero. Era soprattutto una tattica commerciale astuta: in quel periodo gli incassi al botteghino stavano calando per l’avvento della televisione (negli Usa dal 1948), e per recuperare i costi l’America si stava affacciando in Europa per trovare accordi di co-produzione che avrebbero garantito più responso economico. Poiché l’anticomunismo era fortissimo anche in Italia, gli affari si fecero più velocemente. Tuttavia, la commissione dell’Academy che votava i film stranieri era stata capitanata da Luraschi nel 1950-51, 1953-55 e 1958, periodo in cui prendeva la macchina da scrivere e di nascosto faceva il consulente per la CIA, proprio tramite la Paramount. Anzi, scriveva proprio rapporti che non facevano che accrescere la paura comunista negli Stati Uniti. Non solo, Luraschi era così ligio al dovere che si preoccupava pure se Jerry Lewis faceva una parodia di uno scià arabo in Money From Home (I figli del secolo, 1953), ma solo perché in quel periodo i rapporti con l’Iran non erano idilliaci. In gran parte della corrispondenza del ’53, leggiamo due riferimenti a Don Camillo. Nella missiva del 23 febbraio si legge: “Penso che siamo riusciti a mettere da parte Il piccolo mondo di Don Camillo in modo che non ottenga l’Oscar per il Miglior film straniero. In realtà, personalmente non credo che questo film sia troppo pericoloso dal punto di vista politico, ma la sinistra era così intenzionata a farlo candidare tanto da aver fatto alcune campagne elettorali private per vedere il grande vantaggio nell’ottenere un Oscar; quindi, ecco perché sono andato proprio contro. Presumo che sia perché la fine del film indicherebbe che è possibile che comunisti e altri convivano felicemente insieme". Il 9 marzo rincara la dose: “Ho lavorato molto con i vari membri del Board of Governors dell'Academy of Motion Picture Arts and Sciences, per decidere il premio per il miglior film straniero. (…) Penso che siamo riusciti ad ostacolare Don Camillo”. La lettera si conclude con l’auspicio di aver messo abbastanza persone in fila per votare alla fine Jeux interdits (Giochi proibiti), film francese del 1952 diretto da René Clément, e così avvenne puntuale con la statuetta aggiudicata nella edizione del ’53. E dire che Giovannino Guareschi, apertamente anticomunista, aveva avuto la sua parte nello screditare la sinistra quando il partito perse alle elezioni del 1948, per le quali la CIA, con ironia della sorte per Luraschi, era intervenuta segretamente con ingenti somme per aiutare la propaganda della DC. Più che paranoia, Luraschi era spinto dal sentimento di voler cambiare la storia – inutile dire quali correnti politiche seguisse, ma aggiungo che era cattolico convinto – ma nonostante la preziosa documentazione raccolta da Eldridge provi quanto sopra scritto, la CIA potrebbe non aver influenzato troppo Hollywood, ma sono una testimonianza in che clima vivesse il popolo americano.

Ma Don Camillo era davvero sovversivo? Nei libri, e nelle versioni francesi girate dei due primi film, lo spirito era più duro e meno paesano di quanto il cinema abbia cambiato i personaggi, con aperta polemica dello stesso Guareschi che cercherà di inserire le sue idee per tutta la sua vita. Il tono sentimentale era più influenzato dal giudizio cattolico che pesantemente intervenne durante le riprese, suggerendo qui e là di alleggerire situazioni per loro blasfeme o poco ortodosse, e trasformando le storie del parroco con un tono dolciastro: il vogliamoci bene piacque molto al pubblico, eppure come raccontato oggi questi sentimenti potevano essere considerati rischiosi: ad oggi la CIA non ha mai smentito quanto riportato, e sulla verità dei fatti non possiamo che esserne certi.

lunedì 28 febbraio 2022

Su Netflix sbarca il Peter Sellers invisibile

Una piacevole sorpresa in arrivo per gli amanti del grande attore inglese Peter Sellers: ben cinque film sono in arrivo sulla piattaforma Netflix in originale con i sottotitoli in italiano, e sono tutti titoli da riscoprire. Vediamo quali.

I’m All Right Jack (1959)

Conosciuto in Italia come Nudi alla meta, è una commedia satirica realizzata dai fratelli John e Roy Boulting, coppia di cineasti inglesi noti per aver diretto alcune fra le migliori commedie inglesi, incluso questo film con Sellers nel ruolo del sindacalista Kite, e per il quale gli valse il premio Bafta come Miglior Attore. Accanto a lui Ian Carmichael e Terry-Thomas, due leggende della commedia inglese. Il film è assolutamente da recuperare anche perché in Italia è invisibile da molti anni. Arriverà su Netflix il 12 marzo.

Two-Way Stretch (1960)

Arrivato in Italia come Un alibi (troppo) perfetto, è una divertente pellicola “carceraria” diretta da Robert Day, dove Sellers è affiancato da due attori: l’amico David Lodge e Bernard Cribbins. Il film è già disponibile su Netflix.

Only Two Can Play (1962)

Arrivato in Italia con l’infelice titolo di Sesso, peccato e castità, è in realtà una commedia romantica degli equivoci nel quale Sellers, misurato e divertentissimo, coglie uno dei suoi ruoli chiave della carriera che di lì a poco sarebbe esplosa in tutto il mondo. Lo dirige Sidney Gilliat, che assieme a Frank Lauder sarà autore di una delle commedie inglesi di maggior incasso degli anni Sessanta, La rapina più scassata del secolo (1966). Questo film era sparito dalla circolazione in Italia da molti anni. Arriverà su Netflix il 5 marzo.

Heavens Above! (1962)

Noto come Lassù qualcuno mi attende, è uno dei pochi ruoli “positivi” di una carriera fatta di personaggi bizzarri e ambigui come quella di Sellers, e nuovamente diretto dai fratelli Boulting è alle prese con un ruolo di un prete troppo candido per una comunità rurale ed egoista, finendo rifiutato da tutti. Una satira ecclesiastica poco da nota noi, e da recuperare: il film è già disponibile su Netflix.


Hoffman (1970)

Diretto da Alvin Rakoff, arrivò da noi con il titolo O ti spogli o ti denuncio, e rappresenta una delle prove drammatiche più convincenti per Peter Sellers. Sinéad Cusack è la giovane segretaria ricattata dal capo ufficio Hoffman, all’apparenza un meschino ma che si rivelerà una persona molto fragile. Un ruolo sofferto apertamente autobiografico vista la situazione sentimentale di Sellers quando girò questo film, e forse per questo bravissimo. Un film che ebbe una scarsa distribuzione all’epoca e merita assolutamente il recupero. Arriva su Netflix il 5 marzo.


Non posso non ricordare che l'unica biografia italiana su Sellers è stata scritta da me, e pubblicata nel 2018. Qualora vogliate farla vostra, potete cliccare qui.