martedì 25 febbraio 2014

Ricomincio da Ramis

"Sono profondamente addolorato dalla notizia della morte 
del mio brillante, dotato, divertente amico, co-sceneggiatore e maestro Harold Ramis. 
Che ora possa trovare quelle risposte che ha sempre cercato."
(Dan Aykroyd, via facebook).


Mi è dispiaciuto davvero. Quelli della mia generazione – sono nato nel 1982 – lo adoravano, era Egon Spengler, ricordate? “Colleziono spore, muffa e funghi”. 
Da piccolino mi divertivano molto i suoi momenti di paura. Così altezzoso e scienziato (“io non scherzo mai”), ci divertivamo a vederlo scappare con Peter e Ray. Come quando appare il pupazzo dei marshmallow. Ray si giustificava quasi disperato, “Non c'è niente di più soffice e dolce di quei candidi gnocchi di lichene!”, e Peter si rivolgeva a Egon, “Ray è completamente partito, Egon, di te che ne è restato?”, e lui, “Mi dispiace, Venkman, il terrore travalica la mia capacità di razionalizzare...”. Mi divertivano i suoi capelli – che non mi spiegavo perché nei cartoni animati dei ghostbusters erano diventati biondi – la sua voce, riuscireste ad immaginare Peter e Ray senza Egon?
Be’ ora questo è accaduto. Puntualmente qualcuno ha subito pensato che il progetto di Ghostbusters 3, a lungo annunciato, rinviato, forse sarà rinviato per sempre. Murray avrà pensato, ecco una ottima scusa.
C’è stata una generazione di comici incredibile, fatta di talenti straordinari e, come spesso accadeva, di individui al limite della follia. A raccontarcelo sono gli aneddoti coloriti, le recensioni sconcertanti, le fotografie in bianco e nero, qualche registrazione radio, ma di video niente, solo il pubblico fortunato potrebbe raccontarci cosa hanno visto. E perché avevano quel dolore allo stomaco: ridevano a crepapelle, perché andavano al Second City di Chicago, nei primi anni Settanta, e sul palcoscenico salivano Gilda Radner, Christofer Guest, John Belushi, John Candy, e un tizio alto, dalla voce profonda e dalla incredibile capigliatura, di nome Harold Ramis. Anch'egli nato a Chicago, nel 1944, si unì a questo branco di matti sia a teatro che alla radio, con il programma The National Lampoon Radio Hour (1973), con autori come Michael O'Donoghue, e un cast che comprendeva un certo Bill Murray, e suo fratello Brian Doyle-Murray, e Chevy Chase, che sarà inghiottito dalla televisione assieme a Belushi, la Radner e un altro membro del Second City, sezione canadese, Dan Aykroyd, altro “tizio” abbastanza eccentrico. Ramis non seguirà le orme del Saturday Night Live, del quale diffida le massacranti orari di lavoro e lo stress della diretta, ma ritroverà Belushi e alcuni “papà” del demenziale – John Landis, alla regia, Ivan Reitman, alla produzione – con la confraternita del National Lampoon, partecipando al copione di “Animal House” (1978). Il film lo conoscete, fu un successo planetario.
Ricorda Landis, “Ho incontrato Harold a New York negli anni '70 perché mi era stato proposto di dirigere Animal House e volevo rivedere lo script con gli autori. Harold era uno scrittore brillante old fashion che se ne usciva sempre fuori con una battuta. Gli ho detto che il loro script era la cosa più divertente mai letta. Era meraviglioso, divertente e intelligente. Harold aveva scritto per sé il ruolo di Boon, ma io ho deciso di ingaggiare Peter Riegert al suo posto. Non ho preso lui perché era troppo vecchio per il ruolo e perché pensavo che un altro lo avrebbe fatto meglio. Mi ha portato rancore per molto tempo, ma se guardate la performance di Peter nel film, non sta interpretando Boon, sta interpretando Harold Ramis”.
A quel tempo Ramis lavorava ancora al Second City, soprattutto al canale televisivo dedicatogli (SCTV, dal 1976 al 1979), come scrittore e attore. Fra gli attori, Rick Moranis e Martin Short – che approderanno al Saturday Night Live negli anni Ottanta. Incontrerà di nuovo Murray nel 1979, lavorando al copione del film che lo lancerà come star comica, Meatballs (Polpette). Lavoreranno ancora a braccetto: nel 1980 esce Caddyshack (Palle da golf), con Murray e Chevy Chase, regia dello stesso Ramis, seguito da Stripes (1981), dove Harold e Bill sono attori e Ivan Reitman regista. Praticamente, sono in rodaggio per il successivo film, mancherà solo Aykroyd per formare il terzetto di acchiappafantasmi che nel 1984 diventerà uno dei più grandi successi di sempre, Ghostbusters, scritto da Dan con Ramis.
E’ questo il film e il ruolo per cui Ramis ieri è stato ricordato e generalmente compianto. Il suo nome potrebbe dirvi poco, eppure è stato un capitolo importante del cinema comico, non solo americano se pensate che ha influito molte generazioni successive. E’ stato, purtroppo, perché ieri ci ha lasciato all’età di 69 anni non compiuti. La reazione è stata generalmente molto commossa, specie i colleghi che hanno adorato il suo modo di lavorare, sempre gentile e tranquillo, e i suoi fan, perché anche se Ramis non lavorava da diverso tempo e i suoi ultimi film non sono stati un grande successo, ha contribuito come pochi a realizzare commedie assolutamente intelligenti: è passato all'umorismo rozzo di “Stripes”, di National Lampoon's Vacation (1983, con Chevy Chase), al demenziale di Club Paradise (1986, con Robin Williams – chi se lo ricorda? Consiglio il recupero!), allo stravolgimento dei personaggi, Multiplicity (Mi sdoppio in 4, con Michael Keaton), all'invito di vivere meglio, dopo aver passato un incubo comico esilarante, come accadeva nel suo film più famoso, Groundhog Day (Ricomincio da capo, 1993, con Bill Murray: nel 2006 è stato inserito tra i film da salvare dal National Film Registry), fino al rilancio di Robert De Niro come star comica, in Analyze This (Terapia e pallottole, 1999, con Billy Crystal in stato di grazia). Trasmetteva simpatia, dolcezza, nessuna superiorità, come ha detto Bill Murray al Time Magazine, "Si è guadagnato il suo posto sul pianeta. Dio lo benedica". 


Bill Murray in "Palle da golf", 1980

Ramis dirige Lisa Kudrow e Billy Crystal

Murray e Ramis, in un cammeo nel suo "Ricomincio da capo"

Murray e Ramis in "Stripes"

giovedì 20 febbraio 2014

The Monuments Men: recensione senza scintilla

Ecco quello che si dice un film tanto atteso. Annunci a titoli grossi così su Variety, interviste da Letterman, da Fazio, tappeto rosso a Berlino, Londra e Milano, un libro che esce, star stellare, regista rilassato e sicuro e affascinante, insomma ecco che esce il film di e con George Clooney, la gente si strappa i vestiti, i fotografi si appendono per aria, poi buio in sala, parte il film. 
Dormono tutti. 
Abbiamo visto Monuments Men, gli uomini della Monumenti, la divisione dell’esercito americano degli Stati Uniti voluta fortemente dal Presidente per salvaguardare le opere d’arte che in Europa rischiavano di sparire o di bruciare. E’ una storia vera, i nazisti e zio Adolfo, pittore mediocre in gioventù, volevano rubare tutte le opere d’arte dei paesi invasi per il potere assoluto della cultura e anche per riempire un Museo dell’Arte nazista (Führermuseum) per quel matto del Fuhrer. Ora, come fai a spiegare agli ufficiali in trincea che non possono bombardare una chiesa o un castello medioevale – a rischio dei loro uomini e della riuscita della guerra in corso – perché otto uomini di mezz’età, per quanto culturalmente importanti, sono stati autorizzati a deciderlo? Una missione poco convinta e appoggiata, ciò nonostante gli otto uomini salvarono milioni di opere trafugate in Francia, in Italia, nella stessa Germania e Inghilterra e, cosa più importante e clamorosa, scoprirono che in una delle miniere dove i nazisti nascosero migliaia di quadri, statue, c’erano anche milioni di lingotti d’oro. In un sol colpo, otto tizi sbancarono l’oro germanico, le risorse economiche di Hitler che, rimasto col culo per terra, non si arrese e si sparò un colpo in testa nel suo bunker. 
Oppure, è in incognito in Brasile, nei panni di un’amabile vecchio pensionato, come la leggenda narra.
E’ una storia vera, e io ho letto il libro di Robert M. Edsel. Poco raccontata, ma molto appassionante, la lunga vicenda dei “Monuments Men” era perfetta per finire in un film classico hollywoodiano. Quei film di guerra alla John Wayne, ma con un certo humor alla Billy Wilder. Insomma, sapete quei capolavori allucinanti che non rifaranno mai più? Alla John Wayne, perché la storia trasuda di patriottismo e durezza, difficoltà (erano 8, e nessuno li aiutava davvero, e trovarono più difficoltà di quelle raccontate nel film) e sudore, sacrifici e momenti cult (uno cita espressamente il vecchio Wayne); alla Wilder, perché per quanto difficile sia stata la loro missione – uno di loro, come leggo nel libro, morì in seguito ad una improvvisa esplosione – di base c’era un certo umorismo – mezza età, bonarietà e cameratismo forzato, un po’ come in “M.A.S.H.”, ma senza graffiare molto, diciamo che siamo vicini più al compiacimento di Tony Curtis e alle coppie alla Stanlio e Ollio – che solo il grande regista viennese sapeva raccontare; infine, tragicità, è stato scritto che in questo film che le scene di guerra sono goffe, ma il gruppetto di architetti ed esperti storici arrivavano quando le battaglie erano finite, con una atmosfera quasi bizzarra, come se quei 8 erano lì per raccogliere i cocci che sparare col fucile, e quindi non erano fondamentali da mostrare. Insomma, un film da fare. E di questo ringrazio Clooney.
Come l’ha fatto, è un altro paio di maniche. Le critiche generali – oltre il 70% - sono negative. Forse sono eccessive, c’è chi disprezza il Clooney regista presuntuoso, chi s’è annoiato a morte, in effetti è il ritmo il difetto maggiore. Su due ore di film, ha dei momenti di stanca troppo frequenti e, come ho detto all'inizio, ho letto che all'anteprima qualcuno s’è addormentato davvero. Forse troppe voci off, troppi dialoghi, troppa attenzione a sequenze banali, eppure non mi è dispiaciuto affatto. Certo, le differenze dal libro sono un bel po’ (l’impiegata del museo francese, Rose Valland, in realtà era ben oltre l’età di Cate Blanchett, e non ebbe nessuna attrazione sentimentale con James Rorimer, interpretato da Matt Damon), qualche personaggio inventato è stato comunque basato su reali protagonisti - come i ruoli di Bill Murray, John Goodman e Bob Balaban, ma rimane abbastanza fedele sugli eventi. Non sono la sporca dozzina, non è la scampagnata della Banda Bassotti, né veri soldati, sono invece i protagonisti di un film che mantiene un certo fascino anche se ha pochi momenti memorabili. Gli manca la scintilla del buon film, più che del capolavoro. E si esce dalla sala con un dubbio: è il copione, incerto fra dramma e commedia, o il regista ad aver sbagliato? Il cast no di certo: Clooney e Damon sono in parte, Murray è perfetto (antologia pura la scena del grammofono con gli auguri della moglie e dei figli messo nell'altoparlante del campo militare, una sequenza accaduta davvero), molto cupo ed azzeccato Balaban, molto bravi anche John Goodman e Jean Dujardin, che tornano a lavorare insieme dopo “The Artist”; si respira quel divertimento e quel fascino di vederli assieme e in divisa come quei vecchi film “all stars”. Clooney non è un regista presuntuoso: conosce bene il vecchio cinema americano che cita con ammirazione, e si fa sostituire nel finale dal padre, Nick.







domenica 16 febbraio 2014

Sotto una buona stella - recensione senza sforzi

Sarebbe da chiedersi cosa sarebbe una proiezione di un film di Carlo Verdone fuori Roma, a volte, per sentire ed assaporare diversamente alcune situazioni tipiche "coatte" infilate nei suoi film, nel pubblico al di fuori dai confini laziali, e vedere se funzionano allo stesso modo. Gli incassi alti possono rispondermi senza costringermi ad andare in qualche cinema di Granarolo ma, ieri sera in sala, ho avuto modo di vedere il film con due amici, uno siciliano e l'altro milanese, mancava un toscano per far media di un film di Pieraccioni, ma bastavano ed avanzano tranquillamente. Si sono divertiti e quindi basta con le idiozie, Verdone piace in tutta Italia. Sono passati 34 anni - 34 anni! - dal suo primo film ed è l'unico - attenzione - della sua generazione di comici che vanno ancora fortissimo. Ve la ricordate la banda di "Non Stop?", era quella la nuova generazione di comici che, negli anni Ottanta, si infilarono nelle sale come divi assoluti: i vari figli della televisione del cabaret degli anni settanta (Villaggio, Montesano, Pozzetto) furono affiancati dai Nuti, Benigni, Troisi, Benvenuti, e oggi di tutta quella cucciolata di attori ormai invecchiati (e neanche poco) solo lui è ancora in continua salita e crescita. Verdone ha 64 anni e con gli occhiali è identico al padre Mario, scomparso qualche anno fa, decano degli "storici" del cinema in Italia, ormai padrone assoluto del suo cinema, ha questo grande peso sulle spalle di oltre trent'anni di successo ("Ho poca vita privata", ha detto alle Iene) e con una certa fatica si adegua ai temi quotidiani (crisi, solitudine, famiglie spezzate) con la sua solita verve comica, perché "A' ggente vole ride", ma, di questi tempi, che ti vuoi ridere? 
Con questa premessa, ieri Verdone ci ha trascinato in sala per vedere Sotto una buona stella: stella che all'inizio del film non c'è, perché gli muore l'ex moglie, i figli che non ha praticamente mai allevato gli si piombano a casa, con disperazione e nervosismo della sua compagna, perde anche il lavoro perché il presidente dell'azienda dove lavora si è rilevato un truffatore e la Guarda di Finanza fa chiudere bottega, quindi casa sua è diventato un manicomio totale e lui, pure per una età avanzata, per un attimo non crolla. Unico vero colpo di fortuna è la sua vicina di casa, che di giorno è tagliatrice di teste - licenzia per conto della sua azienda i dipendenti - e di notte, pentita delle sue azioni, cerca loro un lavoro, interpretata da Paola Cortellesi: fanno amicizia e dividono le loro sfortune. I loro personaggi uniscono così la loro vera malattia, la solitudine, e cercando di superare le difficoltà qualcosa, fra di loro, nasce.
Il sunto della trama è questa.
Quando scrissi di "Posti in piedi in paradiso", il penultimo film di Verdone, mi lamentai del trailer che aveva rovinato la sorpresa comica di alcune trovate davvero divertenti, e stavolta, nel trailer di "Sotto una buona stella", c'è una gag che nel film non c'è. Tipica di Verdone, è quando gridano, "Il fidanzato!" ai genitori della Cortellesi, anziani e un po' sordi. Più che l'effetto comico di alcune gag nel trailer, ci avevano preoccupato la fotografia usata e alcune inquadrature: il primo film di Verdone girato in digitale sembra essere una fiction di lusso, con un cast di prima categoria e una storia non banale, almeno non nello sviluppo narrativo ma, ragazzi, tra primi piani incredibili, zommate e assolvenze, possibile che non si sono accorti che il film è buio? Poca luce, troppi interni, poco cinema e troppo teatro - fosse stato girato con pochi soldi?
Be' al di là di queste considerazioni tecniche che magari al pubblico possono non interessare, ieri dicevo siamo andati in sala, e ci siamo fatti un sacco di risate. Già questo è una garanzia. Ma siamo tornati a casa con qualcos'altro: è evidente che Verdone abbia della Cortellesi - mamma mia, quanto è brava - una stima incredibile, tra l'altro non celata perché lo ha ammesso lui stesso, e insieme funzionano a meraviglia. Tornate indietro nel tempo, quante attrici che hanno lavorato con Carlo hanno avuto il senso dell'umorismo, forse due, massimo tre, mi vengono in mente Eleonora Giorgi e Veronica Pivetti, anche volendo la Ramazzotti, ma come la Cortellesi no, sono una coppia davvero perfetta. Quindi occhio che potrebbero continuare a lavorare assieme. Lei funziona, funzionano ovviamente i loro duetti (nel trailer impazza la scena del bacio, ma attenzione che quella che fa più ridere - a mia opinione - è la scena della febbre alta, alcune persone in sala strillavano dalle risate), e Verdone, nel personaggio di Federico, una brava persona al quale è crollato il mondo addosso, mette una tenerezza infinita. Il pubblico si identifica e continua a volergli bene. Bravo Carlo!
Due noti dolenti ci stanno: la regia è un pò assente, scolastica, due inquadrature giusto per i dialoghi e via, ma sinceramente se c'è una cosa che non mi è piaciuta sono gli attori di contorno. Già la commedia all'italiana è defunta perché maestri ed eredi sono defunti davvero, il vero problema è che non c'è stato cambio generazionale e nuovi punti di riferimento per questi nuovi attori - giovani - che escono dalle accademie convinti che teatro e cinema sono le stessa cosa. O magari non è quello il problema, non sono così bravi come credono di essere e finisce lì. I caratteristi di una volta non ci sono più - a meno che qualche volto coatto romano vogliamo chiamarlo caratterista - e il film si deve sempre reggere sulle spalle dei protagonisti, affannando il ritmo quando loro non sono in scena, appesantendo alcune situazioni, ma senza queste potenzialità Verdone non riesce - magari volutamente - a graffiare come la trama tenta di suggerirgli. La cattiveria ritrovata nel film precedente qua è un po' annacquata da buoni sentimenti, e allora forse avrebbe dovuto tirare fuori più satira che (facile) comicità.
Rimane un buon film davvero che dobbiamo tutti vedere.