domenica 29 maggio 2016

Il giocattolo (1979)

Ci sono incontri che ti illuminano la giornata, e quello che ho avuto pochi giorni fa è stato memorabile: ho incrociato infatti alla Stazione Termini di Roma il grande regista Giuliano Montaldo. Alla veneranda età di 86 anni l’ho trovato arzillo e molto cordiale: approfittando di un momento di attesa di un treno in arrivo, l’ho avvicinato per fargli i complimenti per un film che avevo rivisto da poco, Il giocattolo, con Nino Manfredi. “E’ un capolavoro!”, gli ho detto, e lui stringendomi la mano mi ringraziava facendo il gesto di baciarmela cavallerescamente...
Mi ritrovo però nell’imbarazzante situazione di non potervi suggerire il recupero di questo film nel caso voleste rivederlo o gustarvelo per la prima volta: è disgraziatamente sparito dalla circolazione. Motivi di diritti, forse, ma è uscito in videocassetta decenni fa e in televisione, dopo un lungo oblio, è stato recuperato sporadicamente da Rai Movie, l’ultima volta quattro mesi fa. Nessuna uscita imminente in DVD o Blu-ray. Ho perso l’occasione per chiedere direttamente il motivo al regista, tuttavia se proprio volete vederlo esiste youtube (non dovrei dirvelo, ma tanto l’ha fatto anche Paolo Mereghetti: sta lì online, intero).
Difficoltà di recupero a parte, Il giocattolo rimane un capolavoro insolito nel cinema italiano. Uscito nel 1979, regalava a Nino Manfredi, il protagonista, un ruolo pazzesco, fortemente drammatico e misuratissimo: un po’ Giustiziere della notte, in pieno periodo di Piombo per il nostro paese, con continue sparatorie e rapine, il film raccontava la triste vicenda di Vittorio Barletta, un ragioniere romano trapiantato nel Nord che prima si ritrova in mezzo ad una rapina in supermercato finita nel sangue, e poi, fatto amicizia con un giovane poliziotto, comincia a coltivare l’uso delle armi, rivelatosi in breve tempo esperto e eccezionale tiratore. Accade che durante una cena in pizzeria col suo amico poliziotto, questi riconosce fra i clienti un pericoloso ricercato, e la decisione di intervenire gli costerà la vita: Vittorio, terrorizzato, prende la sua pistola e uccide uno dei complici in fuga. Inizia per lui un calvario tragico, fra vendette sanguinose e un morboso – ma breve – attaccamento dei mass media sulla sua storia, fino all’arresto di eccessiva legittima difesa. La società è violenta ma ci vuole moderazione. Rimarrà solo con la moglie, sempre più preoccupata di questo giocattolo che si porta sempre appresso, questa pistola che porterà il film al tragico finale. 
Il tema del film è l’uso delle armi per difesa personale, è chiaro, ed è tristemente attuale. (Basti pensare quello che succede in America: un report del “Congressional Research Service” afferma che negli Usa circolerebbero 357 milioni di armi da fuoco contro una popolazione di soli 318,9 milioni di persone!). Montaldo sa bene miscelare momenti grotteschi con il dramma, anche perché la vicenda racconta la follia psicologica che ricorreva in quei anni – tutti hanno un’arma, allora la prendo anche io – e se la commedia all’italiana ha sempre raccontato questi temi con l’ironia, Il giocattolo all’epoca deve esser stato un pugno allo stomaco per gli spettatori. Ecco, “un amarissimo specchio della vita quotidiana”, facciamo copia incolla con una recensione de La Stampa per cavarmela con due righine.
Co-prodotto da Sergio Leone (che sembra aver girato la sequenza dei titoli di testa), vanta un cast tecnico di lusso: fotografia di Ennio Guarnieri, montaggio di Nino Baragli, Musiche (bellissime) di Ennio Morricone; lo scrivono Sergio Donati, Montaldo, lo stesso Nino Manfredi, pignolo scrittore ma attore straordinario: per prepararlo alla parte, il regista e il suo attore frequentarono per diverso tempo diversi poligoni, osservando essenzialmente i tiratori e la loro preparazione psicologica. Al cast si unirono Marlène Jobert, nel ruolo della moglie Ada, il compianto Vittorio Mezzogiorno come Sauro, il poliziotto amico di Vittorio, Arnoldo Foà nel ruolo di Nicola, il principale, e Pamela Villoresi, la figlia. Fra i ruoli secondari, si segnalano Mario Brega, Daniele Formica, Renato Scarpa e Carlo Bagno. 
Ricorda Sergio Donati (2003) che scrisse il soggetto dopo che rimase impressionato per la vicenda di Luciano Re Cecconi, il giocatore centrocampista della Lazio che morì nel 1977 per mano di un gioielliere che gli sparò in pieno petto credendolo un rapinatore quando invece cercava solamente di fare uno scherzo entrando nel suo negozio gridando “Mani in alto!” (l’assurda vicenda fu giustificata in parte perché il gioielliere, disinteressato al calcio, neanche sapeva chi fosse Re Cecconi). Come Manfredi nel film, il gioielliere venne arrestato per “eccesso colposo di legittima difesa” ma dopo 18 giorni fu rilasciato per “aver sparato per legittima difesa putativa” (ancora oggi persiste il mistero che il povero giocatore non proferì parola e venne ucciso senza un vero motivo). Donati si interessò alla vicenda e con grande naturalezza scrisse la storia sottolineando la nevrosi del personaggio che, sottopelle, è comunque un assassino. Per questo pensò a Giancarlo Giannini, che allora era attore feticcio di Lina Wertmüller e della soggezione psicologica dei personaggi che interpretava: fra un tira e molla, alla fine uno dei produttori arrivò con Manfredi e che velocemente diventò il protagonista della storia. Aveva, però, delle riserve sul finale originale, una cosa alla Leone, un finale da western: diventato matto per il successo, i soldi, l’amante, condannato ad avere una moglie malata terminale, decideva di ucciderla come atto di pietà, una eutanasia che sarebbe stata accolta fra gli applausi, almeno secondo il personaggio di Manfredi. Quindi entrava nella stanza di questa donna che però, conoscendolo, aveva già la pistola in mano e gli spara per primo. Ma convinto che il pubblico non l’avrebbe visto di buon occhio, Manfredi si oppose e si decise un finale dove lei lo ammazza per pietà, spostando la cosa come se lui fosse un bambino, “era un’esagerazione”, ricordava Donati. 
Manfredi all’epoca spiegò la natura del film: “Durante la lavorazione, avevamo sempre a disposizione delle armi, armi vere (per girare ho dovuto anche farmi dare il porto d’armi). Ogni volta che veniva a trovarci un amico, anche la persona più dolce di questo mondo, quando vedeva la pistola voleva impugnarla: e io, che lo osservavo, vedevo che si trasformava, si ergeva dal “giocattolo” gli veniva un senso di potenza. E’ un giocattolo che ha dentro la morte, che porta la morte. E’ affascinante. Il senso del film – che non è ambiguo, è pulito, non è come Un borghese piccolo piccolo di Sordi – è aperto: è il pubblico che deve giudicare il personaggio, decidere se è o non è un mostro. E’ chiaro comunque che è lui che sbaglia, che ha ragione la moglie a compiere alla fine come attore di eutanasia contro un uomo che non ha più speranza. La filosofia del film è in quella frase di Sauro che il ragioniere non raccoglie: quando gli dice che qualcuno muore non nel momento che gli spari, ma da quello in cui decidi di portare in tasca la pistola”.
La musica di Ennio Morricone, uscita su LP Cinevox (MDF 33.128) e ristampata nel 2008 dalla stessa etichetta su CD (16 brani), è assolutamente da recuperare. Trasuda tensione e magistrale commento alla distruzione psicologica di un uomo semplice, come titola un brano della colonna sonora.
Per gli amanti delle cifre e delle date: la registrazione al Pubblico Registro Cinematografico n. 6643 riporta come data di inizio lavorazione l’11 Settembre 1978. Il Nulla Osta viene rilasciato senza problemi il 10 febbraio 1979. E dalla sua uscita, ottiene un grande successo di pubblico nella stagione 1978/79: su 842 giorni di programmazione, il film raccoglie 468,226 spettatori nelle 16 città capozona (calcolando il prezzo del biglietto di allora, 2600 lire, il film incassò qualcosa come 1 miliardo e 212 milioni di lire).

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