domenica 4 marzo 2012

30 anni senza Belushi, ma l'anima blues non muore mai.

Solo tre film da protagonista, ma dove è passato, non è più cresciuta l'erba ma solo oro. Era un genio comico, un mito cinematografico. Che non deve essere ricordato solo per i suoi 30 anni dalla morte per overdose.
Che significa sentire un rimpianto per un artista morto troppo presto? Non è forse un sentimento forzato nei confronti di chi, in vita, non ha fatto abbastanza o ha deluso i fan? Verrebbe allora da chiedersi, cosa c’entra tutto questo con John Belushi, che la sua vita l’ha passata sulle montagne russe degli stati d’animo, della distruzione e alla ricerca di essere il numero uno, riuscendoci quasi quando, compiuti i 30 anni di vita, era alle hit parade dei dischi con i Blues Brothers e forse era il comico più famoso d’America. Belushi aveva ancora da dire ma, forse, era destino che uno spirito così ribelle, rissoso, urlato e debordante, coinvolgente quanto esilarante, non poteva andare oltre l’età di un vero mito. Morì nella notte tra il 4 e il 5 marzo 1982, all’età di 33 anni, sull’onda di due mezzi fallimenti cinematografici e prossimo a realizzarne altrettanti, per quanto sulla carta il suo migliore amico, Dan Aykroyd, stava scrivendo un film da fare insieme, “Ghostbusters”, un possibile blockbuster, e il seguito del film dei Blues Brothers. Il periodo poco esaltante che stava passando era il capitolo finale di una vita molto intensa e tutto sommato divertente: quando Belushi lasciò il set del suo ultimo film, “I vicini di casa”, era il 1981, a dieci anni esatti dal suo debutto a Second City, teatro comico sperimentale con sede anche a Chicago, dove vide la luce nel 1949, da famiglia immigrata albanese. La televisione con il “Saturday Night Live”, il cinema demenziale di John Landis (“Animal House”, 1978, e il film dei Blues Brothers, del 1980), le scorribande fracassone con niente poco di meno che Steven Spielberg (“1941, Allarme a Hollywood”), e soprattutto la sua esperienza musicale nel genere blues. Belushi è riuscito a crearsi una seconda vita mitologica, da vera rockstar comica noi lo immaginiamo ancora sulla Blues Mobile con suo fratello Elwood – Dan Aykroyd, alla ricerca dei 5000 dollari necessari per salvare dallo sfratto il convento per orfanelli dove sono cresciuti. Una missione per conto di Dio. E nessuno può fermarli, neanche una morte improvvisa (per modo di dire) che si porta via uno dei maggiori comici di sempre, John Belushi, che meriterebbe uno studio maggiore sul suo lavoro come comico, sia negli sketch fulminanti del SNL, che le sue partecipazioni cinematografiche.
Entra, si ruba la scena, e se ne va. E il pubblico ride ancora, a distanza da quel 1982 maledetto, quando un drogato Belushi, eh sì, aveva il vizietto quello cattivo, necessario per reggere i ritmi e le aspettative di un pubblico senza vera pietà (sapete, la provocazione, “Facce ride”), lo addormenta nel sonno. Ho letto molto sulla sua vita, soprattutto i ricordi degli amici e colleghi, della moglie Judith, e non sono riuscito a inquadrarlo pienamente: sicuro John era una persona adorabile e necessaria dell’affetto degli amici e del pubblico più di chiunque altro, perché il suo grande successo è stato improvviso e spaventoso, era ipersensibile, era il leader in quella compagnia di matti che fu protagonista al SNL tra la prima stagione e quella del 1979 che si portò via molti di loro (Bill Murray, Gilda Radner, Dan Aykroyd fra questi), soffriva terribilmente l’insuccesso, l’insicurezza. Era circondato da amici ma, tanto era indominabile, che diede l’idea di morire da solo. Quasi nessuno riusciva più a reggere i suoi ritmi giornalieri, anzi notturni, tutti crescevano e si sposavano, non facevano più l’alba, lui era ancora sulla strada a fare lo scemo, a dirigere il traffico,come racconta in un divertente aneddoto Steve Martin. Era un kamikaze della comicità, sempre sull’orlo della demolizione, personale e collettiva, sembrava sbracato nella recitazione quando, ecco quello che è sfuggito a molti, era un grande attore dalle numerose sfumature comiche. Tutti lo adoravano, poteva lasciare nel silenzio il set dei Blues Brothers, bussare ad una casa vicina per chiedere ospitalità, svuotando il frigo e stabilirsi sul divano. Tanto, a cercare le sue tracce, ci pensava sempre il suo amico Dan. Il vicino di casa del paese. Sporcava, russava, ma non avremmo potuto fare a meno. Era il nostro amico che, ad una festa, ti mandava in fiamme la casa ma te ne ridevi, ubriaco, mentre lui corre ad un’altra festa. Uno così, nasce una volta sola. E ci manca, senza rimpianti particolari.

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