Ho recuperato in ritardo “Saturday Night”, di Jason Reitman, distribuito limitatamente nel mondo – in Italia per soli tre giorni – con notevole successo di critica, e di quel pubblico di nicchia cui si rivolge il film. Sì perché nonostante il “Saturday Night Live” sia uno dei programmi più famosi in America che ha raggiunto quest’anno la stagione numero 50, il film che racconta quello che successe poco prima della messa in onda del primo show, nel lontano 11 ottobre 1975, è per un target di appassionati che probabilmente ignorano alcuni dei numerosissimi dettagli inseriti nella sceneggiatura, scritta dal regista con Gil Kenan con il gusto della reverenza nei confronti di Lorne Michaels, il pazzo canadese che ha avuto l’idea di proporre questo show in diretta alle mummie della NBC prendendo al balzo l’occasione di sostituire le repliche del “Johnny Carson Show”: ma a parte tutto questo, è un ottimo film godibile, con ritmo, virtuosismo tecnico, e un gran lavoro di attori.
Michaels voleva proporre qualcosa di alternativo alla vecchia televisione che scalciava con arroganza e snobismo la nuova generazione di attori e autori che avrebbero cambiato la televisione e la comicità degli anni ’70: Milton Berle, “Mr. Tv”, con la sua “dote” da divo stronzo (e il suo leggendario pene: eh sì, questa è storia della tv ragazzi!), le telefonate minatorie di Johnny Carson, la inquietante figura del dirigente televisivo, sono personaggi che guardavano dall’alto al basso questa troupe di scalmanati ragazzini. Ad un certo punto appare, seduto sul divano, Bernie Brillstein: agente cinematografico e futuro produttore, veniva dalla vecchia scuola e si aspettava che la band indossasse lo smoking, ma si adattò subito, mentre i musicisti e i comici prendevano cocaina, fu lui a firmare il contratto con John Belushi e diventare, su due piedi, il suo agente personale. Una figura fugace, ma importante per il cambiamento radicale e anticonformista che Michaels riuscì ad imporre con il suo programma. Del resto, uno show in cui l’unico noto è il fumatissimo dalla bocca pericolosa George Carlin, e l’ospite musicale era Andy Kaufman, tenero e lunare, la dice lunga su quanto anche legittimamente i colletti bianchi della NBC fossero preoccupati.
Sugli attori, due parole: la somiglianza (checché i soliti fan rompipalle hanno avuto da ridire) non è importante, nonostante il loro ottimo lavoro di reinterpretare Aykroyd, Belushi, Chase, Gilda Radner, Laraine Newman, Garrett Morris, Jane Curtin con i loro disagi alle prese con un nuovo mezzo per loro, la televisione in diretta. Perché, importante ricordarlo, erano tutti giovanissimi e gran parte sconosciuti. E cito Matt Wood come John Belushi perché ne fa una versione probabilmente veritiera: tossico, aggressivo, ribelle e dolcissimo allo stesso tempo. Michaels lo sopportava perché aveva un grande talento. Sullo sfondo, Billy Crystal e il suo mancato debutto, Michael O’Donoghue, autore sprezzante e geniale, e Alan Zweibel, sudato gagman che sarebbe stato uno dei migliori sulla piazza (soprattutto con Crystal), sono delle chicche rendono “Saturday Night” un gioiello da recuperare.
PS: Discutere qui quanto abbia profondamente cambiato lo spettacolo in America, è fuorviante (e potrei perdermi fra migliaia di nomi, personaggi, sketch: non chiedetevi dov’è Bill Murray, arriverà nella seconda stagione, nel ’77, quando Chase lasciò il programma per Hollywood), ma consiglio caldamente la nuova edizione del libro Saturday Night: A Backstage History of Saturday Night Live, di Doug Hill e Jeff Weingrad, oppure, se vi sentite gradassi, Live From New York: The Complete, Uncensored History of Saturday Night Live as Told by Its Stars, Writers, and Guests (2015), di Tom Shales e James Andrew Miller, di cui esiste persino una edizione italiana della prima edizione, pubblicata dalla Kowalski (2004).
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