giovedì 26 aprile 2012

The Avengers, la recensione

Siamo salvi, gli incassi saranno pazzeschi (flash: quasi 3 milioni di incasso in 24 ore), i ragazzi andranno in visibilio. I Vendicatori vendicheranno con vendetta. Spacconi e ironici. Visto in una sala a Fiumicino, sembrano amici del baretto simpatici e un pò coatti. Tutti però con super poteri. Superman a confronto è Paperink giovedì pomeriggio.

Una sporca dozzina ridotta? Giovani marmotte incazzate come serpi? Il simpatico gruppo di Armagedon? Oppure solo un modo per dare ai fan l'ennesimo cammeo di Stan Lee? (che avrà ormai 200 anni). Ieri l'anteprima di "The Avengers" è spopolata in 537 sale italiane dopo quella dell'11 aprile a Hollywood, caratterizzata da una quasi totale approvazione della critica americana (sentitevi privilegiati, in America uscirà solo il 4 maggio), e sapevamo benissimo di essere finiti nel calderone dei fan che aspettavano questo momento da diversi anni, dopo che praticamente ogni personaggio ha avuto il proprio film per presentarsi e dirsi pronto a questo corale. E' la ricetta che fa impazzire il fan-marvel, il nerd (come quello che ho visto ieri in sala, collegato su facebook col cellulare per tutta la durata del film!), tutti uniti contro il grande cattivo. Non sono un fan dei fumetti Marvel, ed ero preoccupato di non catturare i riferimenti, e le differenze, dalla carta a quello che vedevo ieri sullo schermo. In due parole? Avevo paura di non capire un cacchio. Invece ho perso giusto un paio di riferimenti e una battuta, divertente, sul Signore degli Anelli, ma nell'insieme non sono rimasto per niente deluso. Il regista dosa umorismo e spettacolo con una misura tale che mi ha lasciato un retrogusto di grande paraculata, come dire, amate Iron Man e la sua spacconeria?, ecco nel film entra in scena con la musica rock interna, una trovata accolta con l'applauso della sala. Questo è successo, tale era l'entusiasmo che la sala applaudiva, rideva fragorosamente, a momenti si alzava in piedi commossa nel finale (perché sapevatelo: faranno il 2, era scontato) di un film che nelle premesse doveva dare spettacolo - l'ha fatto e oltre le sue previsioni. Nei suoi 143 minuti di durata, The Avengers infila i suoi supereroi proprio come te l'aspetteresti, dapprima diffidenti e litigiosi, poi sarcastici fra di loro, come se fossa una sitcom, poi tutti uniti per salvare il mondo. Serviti da effetti speciali paurosi, con un ottimo (e finalmente!) 3D, costato 220 milioni di budget, è sopratutto un film divertente come pochi se ne vedono al cinema, anche perché è condito da un umorismo rozzo da fumetto e da ironia tutt'altro che banale. In due parole? Fa ridere come matti. Anche se nel mezzo, la palpebra cade per le troppe chiacchiere (è Thor, sapete..) e il ritmo decolla, anzi schizza, dopo un bel po', ma forse neanche ce ne siamo accorti, troppo presi dall'attesa di vedere subito un nuovo battibecco fra Iron Man e Capitan America o i tormenti di Hulk (che si prende, con questo film, una bella rivincita). La trama? ormai la sapete, Nick Fury raggruppa una squadra di supereroi chiamata "Vendicatori", formata da Capitan America (che avevamo lasciato appena scongelato), Tony Stark alias Iron Man, Thor, un dio norreno, e il dottore Bruce Banner, alias Hulk. I Vendicatori devono contrastare Loki (fratello adottivo di Thor), deciso a conquistare la Terra alla guida di un'armata aliena. Attori in parte (finalmente il ruolo di Scarlett Johansson ha un senso - applausi per la sua prima apparizione con la divisa attillata), e visibilmente divertiti, spicca Robert Downey Jr su Chris Evans, Mark Ruffalo e Chris Hemsworth (cioè Thor, che forse vuol dire, -ho-tre-espressioni?). Appuntamento prossimo? Alla lettura degli incassi che saranno paurosi, parleremo di Robert Downey Jr nei panni di Iron Man per la terza volta, nel 2013. E', diciamolo, una saga diseguale e discontinua, ma non vedo l'ora che questo The Avengers esca in dvd. Oddio, sembro l'Uomo dei fumetti dei Simpson quando dico così..

sabato 21 aprile 2012

Venti anni senza Benny Hill, comico inglese


Il genere delle comiche lo associamo generalmente a un gruppetto di volti noti: se gli indimenticabili Stanlio e Ollio si tengono ancora solidi nei ricordi del pubblico medio, gli spettatori della mia generazione sono cresciuti con un comico che questo genere di umorismo lo esprimeva a colori, ed era inglese: Benny Hill. Tutti noi abbiamo desiderato essere, da adulti, maliziosi e arzilli come lui. Alla fine della sua carriera era ormai vecchiotto e senza molta inventiva, e nonostante fosse famoso in tutto il mondo, di Benny Hill non sapevamo niente, neanche se sono passati novanta anni dalla sua nascita o più di venti anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 20 aprile 1992, all’età di 68 anni.

Durante i miei soggiorni in Inghilterra era facile trovare materiale su di lui. Un giorno comprai un corposo libro biografico (Funny, Peculiar: The True Story of Benny Hill, 2002, scritto da Mark Lewisohn), e un paio di dvd e un paio di DVD del suo show, e scoprii un sacco di cose.

Colpevole una messa in onda frammentaria nel nostro paese nel programma Drive In negli anni ’80, e poi in varie antologie televisive agli inizi degli anni ’90, lo show di Benny Hill nella sua forma originale è sempre stato inedito in Italia. Eppure il suo era uno spettacolo tradizionale con balletti, ospiti, sketch e numero finale, e la sua formazione artistica era stata di tutto rispetto. Benny era ed è considerato uno dei comici inglesi pilastri della cultura britannica.

Con quella faccia rotonda e l’espressione furbetta, il simpatico Benny non poteva che far parte dello show business. Entra giovanissimo come membro di un gruppo musicale di Southampton, dove era nato come Alfred Hawthorne Hill il 21 gennaio 1924. Si trasferì a Londra all’età di sedici anni, fa la sua gavetta in diversi mestieri, tra cui lattaio, camionista, bridge operator (praticamente alzava un ponte), finché venne chiamato alle armi nel 1942 e addestrato come meccanico; siccome Hill era un ottimo cantante e batterista, venne velocemente trasferito nel Combined Services Entertainment, un reparto dedicato all’intrattenimento per i soldati, composto principalmente da commilitoni che preferivano divertire i compagni che impugnare un fucile. Tornato a casa, decise di intraprendere la carriera come intrattenitore: cambiò nome in “Benny“, in omaggio al suo comico preferito, Jack Benny, e trovò lavoro presso i club e locali dove l’unico pubblico erano uomini e soprattutto massoni, finché debuttò ufficialmente sul palcoscenico come spalla della futura stella tv inglese Reg Varney, che lo preferì ad un giovane e sconosciuto Peter Sellers. La sua fortuna iniziale si deve alla radio, dove fu notato e invitato ad apparire nella BBC. Gli anni Cinquanta sono, per Benny Hill, di formazione e prima grande popolarità. E’ infatti nel 1955 che viene trasmesso il primo di tre “Benny Hill Show” che la BBC produce fino al 1968.


Nel 1969, lascia la BBC per la Thames Television, dove ha maggiore controllo e libertà creativa: Benny Hill, infatti, era uno dei pochi comici televisivi a essere stati produttori di se stessi. La prima stagione del nuovo show andò in onda il 19 novembre 1969: questo era lo spettacolo destinato ad avere popolarità mondiale diversi anni più tardi, specie quando venne importato prima in America e poi negli altri paesi dove venne accolto trionfalmente. Il mondo delle comiche di Benny Hill era fatto di belle ragazze discinte e di adulti e vecchietti sessualmente scatenati – per quanto, l’equivoco che lo show fosse volgare, persiste ancora -, di gente sempre in fuga, pasticciona e un po’ scema, e quando non erano scout che inseguivano guide, o infermiere che faticavano a tener buoni i loro pazienti arrapati, il gruppo di Benny Hill si calava in parodie gustose di serie tv a loro contemporanee (memorabile il suo tenente Kojak), fatte di comicità demenziale e ben studiate. A rivederle oggi, l’umorismo sembra datato e grossolano, eppure facevano ridere perché Hill trasmetteva molta simpatia e conosceva molto bene gli strumenti della comicità e il senso del ritmo. Per questo pure se viste centinaia di volte, le sue gag fanno sempre sorridere, magari trasportando lo spettatore a fare il saluto scemo e darsi poi alla fuga.

Contribuì alla sua popolarità un paio di fattori: la musica (il tema di Benny Hill era in realtà “Yakety Sax“, scritto nel 1963 da James Q. “Spider” Rich e resa popolare dal musicista Boots Randolph; ora è tema di ogni parodia televisiva, ed è stata usata anche dal film V per Vendetta; e lo storico tema Mah-Nà Mah-Nà, opera del nostro Piero Umiliani, era stata usata la prima volta nel film Svezia, inferno e paradiso, 1968), e soprattutto il gruppo di attori che accompagnò Benny Hill nei trent’anni del suo show. Ricorderete il vecchietto pelato vittima del carnefice che riceveva sempre colpetti sulla sua testa pelata, o il gigante calvo che era famoso per la sua reazione controllata, o lo spilungone dalla faccia vuota? Certamente, e mi riferisco a Jackie Wright (1905 – 1989), Bob Todd (1921-1992) e Henry McGee (1929-2006), senza nulla togliere alle sue attrici preferite e alle bellezze che spesso usava, definite Hill’s Angels (grassone incluse) un nutrito cast di navigatori attori e attrici che devono allo show l’uscita dall’anonimato.

Aveva anche tentato la fortuna nel cinema, senza grandi risultati. Nei mitici Studi Ealing si sfruttò la sua abilità trasformista in un film che avrebbe potuto fare Peter Sellers, dal titolo Who Done It? (1956), arrivato da noi come Occhio di lince. Seguì una commedia militare dal titolo Light Up the Sky! (1960), diretto da Lewis Gilbert (regista di Alfie, 1966) e con Ian Carmichael e Tommy Steele. Più memorabili le sue partecipazioni nei film Those Magnificent Men in their Flying Machines (1965), Chitty Chitty Bang Bang (1968) e The Italian Job (1969), mentre sono assolutamente da riscoprire i due cortometraggi che Hill ha scritto, diretto e interpretato, gioiellini dell’umorismo visivo: The Waiters (1969) e Eddie in August (1970, trasmesso da noi come Agosto in città, nel 1977). Un’antologia dello show diventò anche un film dal titolo The Best of Benny Hill (1974), giunto da noi con il titolo Bravo Benny, nel 1981.

Il suo show venne trasmesso in Italia su Rete 2 dal 1978, in forma antologica, per poi passare al programma di Renzo Arbore Tagli, ritagli e frattaglie (1981), e nel celebre Drive In (dal 1984), praticamente spezzettato. Alla fine degli anni Ottanta Benny Hill trova spazio nelle televisioni private, da Odeon a Telemontecarlo, finché nel 1991 sbarca su Italia 1 alle otto di sera, ottenendo un notevole successo di pubblico (noi bambini di oggi ricordiamo ancora l’orribile sigla italiana che accompagnava i titoli di coda, “Cocco di Mamma”, canzone scritta da Claudio Mattone e arrangiata da Riccardo Zara).

Nonostante avesse fan come Charlie Chaplin e Hal Roach – il produttore delle comiche di Stanlio e Ollio - critiche e una fine ingloriosa non gli sono state negate.

Fu accusato di sessismo (lui che nella vita era un gentiluomo assoluto, non si sposò mai e morì praticamente solo), misoginia, e soprattutto ripetitività delle sue trovate (ma si auto omaggiava spesso e non amava le repliche, girando così i suoi stessi remake). In più, e questo lo leggo da alcuni articoli d’epoca, a Hill vennero rinfacciati troppi stereotipi razziali nei suoi sketch (e forse questo perché il suo umorismo si allacciava al tradizionale music-hall degli anni della Guerra, dove il nero parlava come un Bongo, l’indiano sembrava scemo, e il cinese…be, faceva il cinese). Quando venne chiesto a John Howard Davies, il responsabile dell’intrattenimento della Thames Tv perché venne cancellato lo show, diede tre spiegazioni: lo show non faceva più gli ascolti di una volta, costava troppo e Benny Hill sembrava sempre più stanco. Ciò nonostante, al picco del suo successo lo show incollò, nel 1977, oltre 21 milioni di spettatori, e quando la Thames Tv mandò in onda l’ultimo episodio della serie, nel 1989, gli ascolti oscillavano sui 9 milioni e mezzo di spettatori. Ultimo, già, perché il contratto venne concluso lasciando Hill nello sconforto e nella delusione. Da lì cominciò un declino fisico che portò al grande sforzo durante un tour americano chiamato Benny Hill’s World Tour: New York!, finché, nel Febbraio del 1992, la Thames dovette fare un passo indietro. 

La cancellazione dello show scatenò così tante polemiche da parte degli spettatori che fu deciso di programmare numerose repliche e di ricontattare Benny Hill, ma senza sorprese lui rifiutò preferendo la Central Independent Television. Quando la bozza del suo contratto arrivò nella cassetta delle lettere della sua casa a Middlesex, quartiere di Londra, il suo cuore aveva ceduto ed era morto d’infarto, il secondo dopo quello di due mesi prima, per il quale rifiutò di mettere un by-pass, causandogli un blocco renale. Hill era morto il 20 aprile 1992. Due giorni dopo, viene trovato morto seduto davanti al televisore dalla polizia avvertita dai vicini di casa preoccupati. Ad un intervistatore che gli chiedeva come si vedeva in tv, rispose, “Vedo diversi menti e una grande pancia. Questo perché rovisto molti scaffali dei supermercati, ma non per vedere quanto costano, ma per vedere quante calorie contengono!”.

A qualcuno piace Wilder

Con un tempismo unico, dedico qualche riga, da bravo ammiratore e collezionista di Billy Wilder, per ricordare i dieci anni dalla scomparsa, avvenuta il 27 marzo 2002, alla bella età di 96 anni. Praticamente gli è caduto il cuore dal sedere. Dotato di una ironia acuta e molto intelligente, Wilder (di origini polacche, si pronuncia Wilder, non Ualder, come molti americanizzano), studia a Vienna, fa il giornalista a Berlino, odora puzza di nazismo e si trasferisce, agli inizi degli anni Trenta, a Parigi. L'aria si fa pesante e va negli Stati Uniti. La sua carriera cinematografica inizia come sceneggiatore, specie per Ernst Lubitsch, il regista che poi avrebbe ammirato di più, tenendolo come punto di riferimento specie durante la stesura dei suoi copioni, 'come lo farebbe Lubitsch' era una frase incorniciata sulla sua parete del suo ufficio: il tocco malizioso e pungente avrebbe distinto le sue commedie migliori. Nella sua lunga carriera, costellata tutt'altro di successi, Wilder avrebbe messo in scena personaggi vittime degli eventi, complessati sessualmente, immorali, con un occhio molto moralista: sicuramente non ci andava leggero. Ironizzava sulla prostituzione morale e sociale, sui mass media, sul travestitismo, la ricerca al successo e su Hollywood, al servizio di attori come Jack Lemmon, con il quale girò sette film, Tony Curtis, William Holden, Walter Matthau, Marilyn Monroe, che rischiò di mandarlo in esaurimento, lo splendido trio del film "Testimone d'accusa", Tyrone Power, Marlene Dietrich, e Charles Laughton, ma anche James Cagney, che interpretò un film che potremmo definire istant-movie, girato sul Muro di Berlino quando il muro era in costruzione, Un, due, tre, splendido fuoco d'artificio del 1961. Non mi sento all'altezza di poter tracciare un profilo su Wilder, sappiate però che è il mio regista preferito, quasi tutti suoi film sono delle gemme e ha diretto alcuni dei miei preferiti, oltre ovviamente all'ultra classico "A qualcuno piace caldo" (1959), alcuni capolavori, come "Stalag 17", il già citato film con Laughton, da una opera di Agatha Christie, ma anche "L'appartamento"  e "Prima pagina", ultimo gioiello della sua carriera, con la coppia Lemmon-Matthau. Era dotato di un umorismo cinico, tagliente, e di grandi abilità creative. Ha praticamente inventato il genere noir, ha scavato come non pochi sulle contraddizioni del successo e sull'America stessa: per questo, anche se vincitore di sette premi Oscar, di cui uno alla carriera, ed è stato acclamato come uno dei migliori registi del mondo, Wilder termina la sua carriera nel 1981, con il simpatico ma lontano dai suoi capolavori "Buddy, buddy", ancora con il binomio Lemmon-Matthau, praticamente condannato al silenzio. Quando morì, dieci anni fa, sono stati tanti a scrivere che nessuno è perfetto, ma forse Wilder lo era davvero.